Se navigando sul sito del Philadelphia Art Museum alla voce Cézanne la ricerca dà la bellezza di 190 opere, una spiegazione c’è. La stessa spiegazione che vale per la Barnes Collection, sempre di Philadelphia, dove di Cézanne ne troviamo 63. La capitale della Pennsylvania a partire dalla metà dell’Ottocento è stata infatti epicentro di un fenomeno collezionistico che ha pochi paragoni nella storia, reso possibile dalle grandi ricchezze accumulate, in particolare grazie al business delle ferrovie e dell’industria siderurgica. Su questa classe di magnati l’Europa, e Parigi in particolare, avevano poi esercitato un’attrazione irresistibile.
Se la maggior parte di queste collezioni oggi sono patrimonio del Philadelphia Museum of Art il merito va a un direttore di eccezionale dinamismo, Fiske Kimball, storico dell’architettura, nominato nel 1925 e restato in carica per quasi trent’ anni. C’è una aneddotica infinita attorno alle sue conquiste più celebri. Strappò a New York la collezione di Albert Eugene Gallatin, avvocato, erede di una famiglia facoltosa. Era un collezionista-ideologo, paladino della non objective art. Per questo aveva concepito la sua raccolta come spazio pubblico, esponendola negli spazi concessi dalla New York University, anticipando lo stesso MoMA. Quando durante la guerra gli venne dato lo sfratto, Kimball non perse tempo: a inizio 1943 i due firmavano un accordo per il deposito di 160 opere che poi si trasformò in donazione.
Ancora più leggendario il colpo fatto con Louise e Walter Arensberg. Lui era intellettuale e poeta, erede di una ricchissima dinastia di industriali del ramo siderurgico. Nel 1913 visse la sua folgorazione sulla via di Damasco visitando il primo Armory Show, organizzato pionieristicamente da tre studenti, che erano stati capaci di intercettare opere da tutti gli astri nascenti dell’arte europea. Arensberg venne conquistato da una delle opere che più avevano fatto discutere, Nude Descending a Staircase, No. 2 di Duchamp: ci vollero sei anni prima che riuscisse ad acquisirlo, ma intanto aveva allacciato con Marcel un’amicizia destinata a diventare un vero e proprio sodalizio. Il collezionista mise a diposizione di Duchamp una stanza contigua al suo appartamento; lì sono stato concepiti i primi ready mades.
Quando alla fine degli anni quaranta gli Arensberg, che nel frattempo si erano trasferiti a San Francisco, iniziarono ad affrontare il tema della destinazione della loro collezione, ricevettero l’immancabile disponibilità di Kimball. Sgominò la concorrenza di tutti i musei americani, offrendo gli spazi dell’ala nordorientale allora in costruzione. Arensberg aveva chiesto a Duchamp di andare in ricognizione. Il responso, in apparenza banale, è di quelli che segnano la Storia: l’edificio, sentenziò Duchamp, trasmette «sensazione di stabilità». In questo modo Kimball non garantì al museo soltanto la collezione ma incassò anche una titolarità ideale per ricevere in donazione tutte le più importanti opere del grande profeta del concettualismo (anche la più celebre ed enigmatica, Le Grand Verre, donata nel 1952 da Katherine S. Dreier). Gli Arensberg, nella loro lungimiranza, avevano anche acquisito oltre un centinaio di disegni di Cézanne, che ora costituiscono uno dei nuclei più importanti del Museo di Philadelphia.
Uno spaccato di questa straordinaria vicenda collezionistica è esposto a Milano nelle sale di Palazzo Reale, sino al 2 settembre. Sono cinquanta opere, per lo più della stagione impressionista, che è interessante seguire nei rispettivi percorsi, attraverso i quali sono entrate nelle raccolte del museo americano. Si scopre che uno straordinario quadro di Degas, La classe di danza (1880), con uno squarcio di città che irrompe dentro lo specchio delle ballerine, era nelle collezioni di Alexander Cassatt, titolare della Pennsylvania Railroad, oltre che fratello di Mary, pittrice aggregata al gruppo degli impressionisti (espose con loro a partire dal 1878). Era stata lei ad accendere l’interesse del fratello per la nuova arte europea, provocando di fatto una corsa all’imitazione da parte di tutta la borghesia ricca di Philadelphia. Mary Cassatt è presente a sua volta in mostra con un ritratto di donna donato da Charlotte Dorrance Wright. È funambolica, invece, la parabola di Samuel Stockton White, dentista che presto industrializzò la sua attività. Era culturista e, arrivato a Parigi, si trovò a posare per Rodin. Cominciò così la sua storia collezionistica che curiosamente si orientò in particolare su Georges Braque, un artista del tutto antitetico a quel suo ideale muscolare.
Quanto a Cézanne, assenti purtroppo i disegni che avrebbero meglio testimoniato la qualità di questo collezionismo, è presente con tre opere. Una da sola vale la visita: Paesaggio invernale a Giverny, olio incompiuto del 1894. In quell’anno l’artista aveva accettato un invito conviviale di Monet, andando ad alloggiare all’Hôtel Baudry. Il burbero Cézanne però mollò la compagnia a fine novembre, senza pagare il conto e lasciando quella tela non finita in camera. La titolare dell’albergo la trattenne come risarcimento. Venne poi acquisita da Frank e Alice Osborn, una coppia di artisti di Philadelphia, che nel 1966 la donarono al museo. Quando ancora si faticava a capire l’unfinished cézanniano, sguardi americani ne avevano invece intercettato la fondamentale importanza. E oggi restiamo stregati da questo quadro spoglio e di forme solide che sembra tendere un ponte tra Masaccio e la pittura analitica.