Cambiare la storia, cambiare la geografia, cambiare le persone. I terremoti del 2016 e del 2017 non hanno lasciato solo macerie sull’Appennino, hanno anche completato un processo già in atto da anni: quello dell’abbandono delle aree interne. La gente va a vivere altrove, il lavoro scompare, resta solo chi è troppo vecchio per inventarsi un presente diverso e chi non ha altre alternative.

DA SEMPRE in queste zone si vive per lo più di pastorizia e agricoltura e adesso, con l’economia affidata soltanto a un flusso turistico non organizzato né foriero di grandi numeri, la crisi si fa sentire più forte che mai. Ed è a questo punto che il futuro si manifesta sotto forma di progetti dai nomi evocativi, nel tentativo di convincere i superstiti che ci sia qualcosa oltre una ricostruzione che, tre anni dopo le scosse, ancora non comincia. Ferrero e Loacker sono due multinazionali che operano nello stesso settore e che in questo momento hanno anche le stesse idee di sviluppo: dopo le delocalizzazioni degli anni passati, adesso si pensa di riportare una parte consistente della propria produzione in Italia. Lo chiede il mercato, gli esperti di marketing dicono che il solo fatto di poter dire che un tal prodotto sia «made in Italy» aiuti non poco le vendite. E poi il mercato turco da cui viene la grande maggioranza delle nocciole, sostengono sempre gli esperti, è diventato troppo instabile, troppo rischioso.

È COSÌ CHE Ferrero ha varato il progetto «Nocciola Italia», che consiste nell’acquisizione di grandi appezzamenti terrieri da dedicare alla monocoltura di nocciole. Le terre però non vengono comprate, ma prese in affitto dai proprietari attraverso un contratto che li vincola a coltivare e raccogliere nocciole, in una sorta di versione moderna della mezzadria. Qualche mese fa a Fiastra, in provincia di Macerata, la multinazionale ha spiegato nel dettaglio la propria proposta: per accedere al progetto bisogna trovare almeno cento ettari – da quintuplicare in cinque anni – che saranno bloccati fino al 2037. Il prezzo di acquisto del prodotto da parte di Ferrero sarà una media tra la quotazione di mercato italiana (al 70%) e quella turca (al 30%). Se poi il mercato dovesse contrarsi e i prezzi scendere, Ferrero ha comunque fissato un prezzo minimo garantito: 1,94 euro al chilo (attualmente il prezzo medio è di circa 2,50 euro). La multinazionale, comunque, non acquisterà il 100% del raccolto, ma solo il 75%, con l’ultimo quarto che resterà a disposizione dei coltivatori.

SEMBRA UN AFFARE, ma bisogna considerare che per le nocciole servono cinque anni di attesa dal momento in cui si pianta al momento in cui si può raccogliere. È per questo che chi vorrà aderire a «Nocciola Italia» dovrà accedere a un prestito bancario. Ferrero, per ovviare alla questione, sta già stringendo accordi con Ubi e diversi istituti di credito locali. Una scommessa: prendere i soldi in prestito per qualcosa che, se andrà bene, frutterà tra cinque anni è un azzardo degno di una sala da gioco, ma nelle Marche non sono pochi gli agricoltori che dal sisma in poi sono ridotti alla fame o quasi: piuttosto che niente è meglio piuttosto. L’obiettivo finale di Ferrero, ad ogni buon conto, è di arrivare a coltivare in Italia ventimila ettari di noccioleti, che andrebbero così a sommarsi ai settantamila già esistenti.

LO SCORSO LUGLIO, a Matelica, sempre nel maceratese terremotato, si è presentato Andreas Loacker, uno dei pezzi più grossi dell’omonima multinazionale dolciaria di Bolzano. La sua idea è molto simile a quella di Ferrero: chiunque volesse investire anche solo quattro o cinque ettari nel progetto, riceverà un «noccioleto chiavi in mano», con un contratto di filiera di quindici anni e il 100% dell’acquisto vincolato al prezzo di mercato.

SONO OFFERTE che fanno gola, non c’è dubbio, e tuttavia Carlo Petrini di Slow Food ricorda che«oggi le scelte produttive sono totalmente condizionate dalla domanda della grande industria, che detta anche i prezzi, e i contadini sono costretti a diventare lavoratori a cottimo. Diversificare le colture sul proprio fondo è una delle qualità più preziose di ogni agricoltore, è l’espressione più alta della sua professione». Resta il mistero sulle adesioni ai progetti di Loacker e Ferrero, ma a primavera il quadro dovrebbe essere completo e poi si comincerà ufficialmente. Non c’è però solo il lato economico.

LA MONOCOLTURA di nocciole può avere anche conseguenze di alto genere. In provincia di Viterbo si producono 45 mila tonnellate annue di nocciole e la situazione è allarmante. I fitofarmaci e i concimi necessari alla coltivazione si disperdono nell’atmosfera spesso a distanze sin troppo ravvicinate dai centri abitati, oltre che nelle falde acquifere. A settembre l’Isde (International Society of doctors for the environment) ha prodotto un corposo dossier intitolato «I tumori in provincia di Viterbo». I numeri sono i seguenti: tra il 2010 e il 2014 sono stati diagnosticati 10.098 nuovi casi di tumore tra i 320 mila residenti di questa zona.

I MEDICI sostengono inoltre che la prevenzione si dovrebbe fare «evitando l’esposizione delle persone, in particolare dei bambini e delle donne in gravidanza ai pesticidi anche con interventi di contrasto all’espansione della monocoltura della nocciole e di altre monocolture estese (questi particolari tipi di coltivazione utilizzano pesticidi e sostanze di sintesi chimica notoriamente tossiche e cancerogene), espressioni dell’agricoltura intensiva e chimica, in favore dell’agricoltura biologica rispettosa di salute e ambiente».

TUTTO GIUSTO, ma il biologico rende meno e per guadagnare con le nocciole bisogna fare numeri spaventosi. E fare numeri spaventosi senza la chimica è un’impresa impossibile.