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Ferrarotti, connessioni sociologiche

Ferrarotti, connessioni sociologicheFranco Ferrarotti – foto Getty Images

Incontri/Una conversazione «musicale» con lo studioso piemontese Nella sua lunga permanenza negli States ha sviluppato un forte interesse verso jazz, rock e rap

Pubblicato circa un mese faEdizione del 17 agosto 2024

Franco Ferrarotti è uno studioso eclettico che spesso ha incorporato jazz, rock e rap nei suoi scritti. Quando riflette su eventi musicali epocali, come Woodstock, lo fa con le categorie del mestiere, analizzandone gli aspetti innovativi nel quadro della protesta giovanile e i limiti strutturali (Verso l’uomo autotelico, Edizioni di Comunità, in pubblicazione); sollecitato a raccontare la sua partecipazione diretta allo stesso episodio i toni cambiano, l’acutezza viene filtrata dalla soggettività. Parliamo del suo rapporto con la musica e delle inevitabili connessioni sociologiche.
Il primo ricordo musicale.
Sono nato in campagna, prematuro, malaticcio, in un cascinale detto La Fornace, trascinato poi via dal Po una notte di tempesta e di alluvione, in una località del comune di Palazzolo, in provincia di Vercelli, a una manciata di chilometri da Crescentino. Per avere aria buona, da bambino, i miei mi mandavano a Robella, la roccaforte dei Ferrarotti, dai bisnonni Ursula e Battista, nella loro casa isolata nel bosco e qui ho avuto la straordinaria esperienza della musica del silenzio, interrotto solo dal vibrare armonioso del vento mattutino nelle sensibili cime dei pioppi e dei faggi. Il bosco mi ha insegnato ad ascoltare la musica del silenzio. Più tardi, i Capricci di Paganini, nell’esecuzione di mio fratello maggiore, Giovanni, violinista. A otto anni suonavo il flauto traverso, gli «esercizi» di Fürstenau, Bach, Scarlatti. Nello stesso anno al Teatro Regio di Torino, vengo folgorato dalle ultime scene del Rigoletto di Verdi, quando il giullare di corte scopre il cadavere della figlia Gilda invece di quello del duca di Mantova, che intanto canta «la donna è mobile» da fuori scena.
Come ha scoperto il jazz?
Nella «stalla» di New Orleans, in Louisiana, dove il jazz è nato. Splendida musica «incolta» delle plebi, resa popolare dagli afroamericani e dai chicanos messicani che lavoravano nei capi di cotone nel Sud degli Stati Uniti. Ciò che mi attrae nel jazz originale, prima dell’«imborghesimento» ad opera di intellettuali «volontari del proletariato», ma sempre devoti ai loro privilegi, è la sofferenza che non si rassegna, la dignità, la speranza («Nobody knows the trouble I’ve had, nobody knows but Jesus»).
Eric J. Hobsbawm ha proposto la periodizzazione del Secolo breve. Peraltro, lo storico inglese è stato in gioventù anche autore di una «Storia sociale del jazz», recentemente ripubblicata. Come vede l’accoppiata Novecento/jazz?
Ho conosciuto personalmente Hobsbawm, uno storico spiritoso, che mi confidava di aver voluto in tutta la sua vita fare il batterista e che presumeva, a torto, secondo me, di dare al jazz carte di nobiltà di cui il jazz non aveva alcun bisogno. Il jazz non è la premessa storica di nulla, se non di se stesso. Vale perché c’è. Come la poesia, l’arte in generale. Il jazz va preso per quello che è, fin dalle origini. Non ha storia. Accade. Esplode. E quando lo senti e ti risuona «dentro», ti trasforma la vita.
Il sociologo Howard S. Becker e il jazz degli outsider. Il jazz come lente interpretativa dei meccanismi sociali.
No. Il jazz non va utilizzato come segno stenografico di tutta una situazione sociale. Nessun dubbio che sia un segnale, un atto di presenza. Ma vale in sé e per sé, al di là dei destini individuali dei membri del gruppo e classi sociali.
Ha associato spesso il rapporto tra musica e comunità alla musica nera, segnatamente al rock e al rap. Come si innesta il jazz in questa relazione?
Il valore del rock e del rap, rispetto al jazz, è da ricercarsi nel loro porsi come incipienti prese di coscienza di «esclusi», nel rifiutarsi a definizioni chiuse, tendenzialmente dogmatiche. In questo senso, il jazz è stato rovinato, cioè, snaturato, dal suo successo. Paradossalmente, il rock e il rap, anche nelle loro forme estreme e talvolta blasfeme, ricordano al jazz le sue origini, socialmente importanti, se non rivoluzionarie.
Mi ha raccontato di aver partecipato a Woodstock. Come lo ha visto con gli occhi del sociologo?
Sono stato portato a forza a Woodstock dai miei studenti di New York. Non ho resistito fino alla fine. Posso solo dire che è stata una sorta di orgia primordiale, in cui si mescolano il fango, la palude, il sangue e le feci e lo sperma da cui nasce la vita. Per barbarica o rompi timpani o cacofonica che sia, la musica dei giovani serve a loro come «abitazione», separata dal mondo perbene e «perbenista».
In «Rock, rap e l’immortalità dell’anima» (Liguori editore, 1996) scrive: «Come il jazz, prima che fosse quasi totalmente assorbito nell’ortodossia della sinistra salottiera e perbenistica, anche il rock è stata musica d’opposizione, liberatoria, alternativa». Ci piace questa idea riferita alla musica di «disinnesco del potenziale rivoluzionario»…
Non si dà, storicamente, rivoluzione che non abbia il suo inno, la sua «Marseillaise». Ma quando l’inno si è «ufficializzato» la rivoluzione è finita. (Si pensi ai «Fratelli d’Italia» di Mameli).
La definizione di società liquida coniata da Zygmunt Bauman è servita da modello per una definizione relativa alla smaterializzazione del suono analogico in beat digitali. La convince l’idea di una «musica liquida»?
Ho conosciuto Bauman a Varsavia nel 1964, quando era lo zelante, servizievole assistente del marxista dogmatico e stalinista Adam Schaff. Il filosofo del diritto Adam Podgureski mi diceva: «Guardati da Bauman. Nel 1945 è comparso a Varsavia in uniforme del Kgb». Paradossalmente, l’idea di «società liquida» è esattamente l’opposto di ciò che abbiamo: una «società irretita».
Venti di guerra, crisi ecologica, ingiustizia economica, intelligenza artificiale. Ci aspettano cambiamenti e rivolgimenti epocali. La musica che oggi è in secondo piano tornerà centrale per i giovani?
Per i giovani, anche grazie alla loro inesperienza, è azione, non commento; presa di coscienza, non fronzolo estetizzante. La musica per i giovani è un atto di presenza, un’esperienza esistenziale originaria, come il sudare e il respirare. Non è vero che, per i giovani, la musica sia in ribasso. È semplicemente in attesa di manifestarsi, al di là e contro il conformismo imperante, l’attuale delirio dell’onnipotenza tecnologica, l’utilitarismo gretto che prosciuga e snatura i rapporti umani, impoverisce e sta eliminando il legame sociale come valido in sé e per sé. I giovani dovranno riscoprire se stessi, la vita interiore, l’uomo autotelico, vale a dire l’essere umano, che, interrogandosi nel profondo, scopre il suo proprio «telos», lo scopo della propria vita, il suo senso, e ad esso si dedica rinunciando a tutto il resto. Scegliere vuol dire rinunciare. Identità e alterità sono pratiche di vita e concetti correlativi, necessari l’uno all’altro. Il Sé ha bisogno dell’Altro da sé.
Ha avuto relazioni importanti con intellettuali di primo piano negli ambiti più disparati. Saremmo curiosi in particolare di sapere qualcosa su Pavese, di cui è stato amico in gioventù e che aveva una nota passione per il jazz.
È vero che ho avuto la fortuna di incontrare molti personaggi, ma raramente gli intellettuali di ascendenza umanistica di una volta si occupavano seriamente di musica, ritenendola occasione di puro intrattenimento. Da questo punto di vista, Pavese era un’eccezione. Nel 1943-’44 io cominciavo a suonare il flauto traverso e con Pavese si parlava anche di jazz. Eravamo particolarmente interessati al fatto che una musica di origine popolare, nata nei campi del lavoro schiavistico, si fosse raffinata e ingentilita, se non imborghesita, fino ad arrivare ai café alla moda di New York. Ma per Pavese il jazz era un richiamo alle canzoni popolari delle Langhe.

LA BIOGRAFIA
Franco Ferrarotti è il decano della sociologia italiana, primo a meritarsi una cattedra negli anni Sessanta, dopo aver fondato con Nicola Abbagnano i Quaderni di sociologia (1951). È stato promotore della facoltà di Sociologia a Trento, collaboratore di Adriano Olivetti e tra i primi studiosi italiani a sbarcare in America, acquisendo la capacità di analizzare in profondità quel paese e frequentandone con curiosità la musica, dal jazz al rock fino al rap. Oggi, come studioso emerito alla soglia dei 99 anni, Ferrarotti non ama riconoscersi nel versante sociologico del suo percorso intellettuale. Questo campo a suo parere ha avuto troppo successo e ha perso lo spirito critico. Scrive in La città transnazionale (Armando Editore, 2024 euro 15): «Io non ero fatto per una disciplina; io ero fatto per rompere le paratìe e tutte le frontiere (…) Il mio grande desiderio è riuscire a passare la frontiera senza presentare i documenti».

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