I ragazzi del Teatro Marinoni bene comune resistono nel magnifico spazio dell’ex Ospedale al Mare del Lido Venezia recuperato qualche anno fa (www.teatromarinonibenecomune.com) dove si arriva seguendo le candele, e si balla e si beve a prezzi normali (2.50 euro una birra) fino a tarda notte, qualità musicale alta contro la pessima play list che si diffonde nell’aria dalle parti del Palazzo del cinema. A Roma invece il cinema America è stato sgombrato nonostante i tanti complimenti e promesse (anche del ministro Franceschini), la sala trasteverina vintage chiusa da anni, che un gruppo di ragazzi appassionati e cinefili aveva fatto rivivere, è destinata a diventare un condominio di 22 miniappartamenti milionari. Palazzinari contro immaginario, vecchia storia nella capitale divorata dal cemento del boom che continua imperterrito a dilagare nonostante i tempi di deflazione e di spread.

«Possedere e distruggere» diceva Pasolini nell’intervista a Furio Colombo rilasciata ai tempi di Salò, che sarà il suo ultimo film, messo sotto sequestro dai censori italiani, con processo al produttore Grimaldi, gridando allo scandalo e all’offesa alla morale. Pasolini era morto e non poteva replicare ma forse quanto aveva da dire lo aveva detto già, nel film e negli scritti.

Anche Abel Ferrara è un regista che fa dell’intelligenza provocazione, – basta pensare al geniale Welcome to New York sul caso Strauss Kahn rifiutato in concorso al Festival di Cannes nei suoi vertici troppo spaventato solo dalle reazioni di famiglia e benpensanti. Pasolini (in sala il prossimo 25 settembre) era dunque il titolo più atteso della Mostra, soprattutto perché la sua figura, non solo in Italia, è divenuta nel tempo un mito e persino un monumento forse (per lo più) in senso contrario a ciò che lui avrebbe voluto.

Ed invece Ferrara che ha scritto la sceneggiatura insieme a Maurizio Braucci elimina radicalmente l’agiografia pasoliniana del personaggio e della sua città, Roma, (non solo Mamma) senza però «tradire» la fedeltà ai luoghi, al suo universo intimo, alle figure che appartengono al suo quotidiano di giorno e di notte, ai suoi conflitti, alle sue intuizioni. «Volevo raccontare la vita di Pasolini e non la sua morte», dice il regista.

Che questa dissonante partitura di anarchia e lucidità (orchestrata dall’ottimo montaggio di Fabio Nunziata), in cui Merola sfuma nella voce della Callas, segue in una manciata di giorni prima della morte, rovesciando la «realtà» della ricostruzione nelle intuizioni di Petrolio, il suo smascheramento caustico dei salotti borghesi che balenano come in un sogno oscuro di corruzione e poteri, le notti barocche che sfumano nei bar di angeli caduti. Gli occhi dei ragazzetti coi giubbini e i pantaloni stretti sul culo dietro ai quali corre

Carlo, il personaggio di Petrolio che il poeta trova «ripugnante», in cerca di un pompino. E l’ultima sera di Pasolini, quel novembre del 1975, prima di essere ammazzato sulla spiaggia di Ostia, tra Pommidoro, il ristorante dove era di casa, – il proprietario ne conserva ancora l’assegno – e il Biondo Tevere, dove offrì la cena a Pino Pelosi, il meccanico a cui i soldi non bastavano mai.

Ferrara come il Martone de Il giovane favoloso la «corrispondenza» la cerca più che nei documenti (peraltro studiati con estrema accuratezza) nella parola poetica pasoliniana, Salò e Petrolio, a cui Pasolini stava lavorando, e il PornoTeo Kolossal ,il film mai girato. Nei corpi pasoliniani, Ninetto Davoli che interpreta Epifanio, e insieme a Riccardo Scamarcio, che invece è lui stesso, insegue la cometa per scoprire che il Paradiso non esiste e la fine non c’è. Il volto di Adriana Asti, meravigliosa icona del desiderio in Prima della rivoluzione, dell’amico e «pupillo» di Pasolini Bernardo Bertolucci, le lettere del poeta che scrivendo agli amici cerca di illuminare la sua opera.

E nella violenza, disseminata tra piazze e privato, che esplode feroce nel nostro Paese in cerca di una possibile rivolta. Tra i tasti della sua lettera 22, e nel sesso, che è «sempre politico», con una scena di orgia davanti alla quale arrivano Ninetto e Epifanio, in un cortile di Roma fuori dal tempo, dove si affrontano a colpi di scopate i gladiatori maschi e femmine di «cazzo vaffanculo» «figa vaffanculo».

La casa, le camicie, la macchina, l’agenda di Pasolini sono però ricostruiti con estrema precisione, come le sue giornate di pubblico e privato, il momento sereno di un pranzo con le persone amate, la madre, il cugino Nico Naldini (Valerio Mastrandrea), Grazia (Giada Colagrande), l’amica amatissima Laura Betti che arriva dal set di Jancso e ride con la grazia di Maria De Medeiros mentre racconta come ha spiegato il sesso alle attrici comuniste.

Forse per questo il Pasolini di Ferrara appare straniato rispetto all’immagine dominante che lo racchiude, alle «teorie del complotto» intorno alla sua morte che avviene qui per soldi, per rabbia, per quel cinismo proletario sfrontato e implacabile che punteggiava le sue corse notturne. O quelle dei suoi personaggi.

Pasolini è un incredibile Willem Dafoe (nella versione italiana a doppiarlo sarà Fabrizio Gifuni, mentre De Medeiros avrà la voce di Chiara Caselli), mai predicatorio nelle sue affermazioni che scorticano i sistemi sociali, i moralismi, il pensiero come luogo comune. «Scandalizzare è un diritto, essere scandalizzati un piacere, rifiutare di essere scandalizzati è moralista» dice Pasolini/Dafoe in un’intervista in Francia per l’uscita di Salò che apre il film. Ma lo scandalo in sé non significa nulla se non è un gesto estetico e politico, e questo Pasolini ferrariano è il film più politico del festival e non nel senso di «impegno» o di denuncia, di svolgimento dei «grandi temi» della cronaca o dell’attualità con cui oggi sembra coincidere l’idea di un’immagine politica. Lo è per il sentimento di viscerale libertà che lo attraversa, e per quel suo sguardo commuovente sul cinema, e forse su di noi o su se stesso, che non può essere più come un tempo.

Nell’interrogare il personaggio Pasolini attraverso la sua opera, e la sua vita, Ferrara interroga la sostanza profonda di ogni gesto artistico, arte e vita, relazione difficilissima e ambigua, che ha bisogno di un equilibrio perfetto, che rivendica una presa di posizione: correre rischi, esporsi.

«Essere vivo è per me fare film», dice Dafoe/Pasolini in uno dei momenti più sentiti del film, laddove si sente anche più forte l’affinità con l’autore. Ferrara però non «fa» Pasolini, lo moltiplica nei frammenti dei testi, nella sua narrazione non lineare, stridente, in cui l’immagine non asseconda una storia ma ne contiene infinite. Il suo Pasolini come il personaggio del precedente 4:44 va con consapevolezza verso l’apocalisse, assume i rischi di arte e vita che sono quelli dell’intellettuale, dell’artista rispetto al conformismo del proprio tempo. E in questo corpo a corpo personalissimo Ferrara ci restituisce l’essenza di Pasolini, la sostanza destabilizzante di un pensiero che non cessa di interrogare il gesto artistico.