«Un nuovo soggetto politico, qualunque sia, non può prescindere dal radicamento dei territori, dalle esperienze che ci sono già. Non può riconnettersi alla politica se non partendo dai luoghi concreti, dalla materialità quotidiana delle persone. Insomma se un soggetto di sinistra non parte dai territori non ha senso, resta nel cielo della politica. Non è una cosa reale». Francesco Ferrara, deputato di Sinistra italiana e dirigente di lungo corso (fino a un paio d’anni era fa coordinatore di Sel, incarico che ha poi lasciato a Nicola Fratoianni) è uno dei promotori del documento cosiddetto «dei 100» (pubblicato per esteso su ilmanifesto.it). Perché buona parte dei «100» firmatari sono amministratori locali.

La vostra è un’area di dissenso del nuovo partito in gestazione? Segnalate poca attenzione verso i famosi territori?

Segnaliamo un problema. Non c’è dubbio che ci sono punti di dissenso, ma questo lo vedremo nella discussione a cui offriamo questo testo. Io intanto posso parlare per me. È naturale che il nuovo soggetto politico della sinistra nasca con una forte spinta nazionale. Ma se questa spinta non si nutre anche delle nostre strutture territoriali e delle soggettività della sinistra che nelle città vivono e operano, questa spinta non vive. Chi progetta il partito nazionalmente non può perdere di vista il corpo e l’anima militante di quelli che siamo.

A occhio sembra il contrario: in questo momento nelle città che vanno al voto il percorso di unità a sinistra è in generale più avanti rispetto a quello nazionale.

Dobbiamo fare attenzione. Sinistra italiana a livello nazionale è all’opposizione del governo, intanto perché non è la coalizione che ha vinto le elezioni e soprattutto perché in quel governo c’è la destra e perché le politiche sociali di Renzi sono indigeribili. Ma nelle città il problema è tutto diverso. Lì, almeno dove siamo stati al governo, siamo noi a dover rispondere per come abbiamo governato, nella maggior parte di casi con il Pd. E non solo con il Pd ma con i cittadini dobbiamo scegliere come proporci o riproporci. Abbiamo un vincolo di popolo. Per questo il territorio non può essere omologato alla nostra scelta di campo contro il governo Renzi. Non dobbiamo disperdere il lavoro fatto fino ad adesso. Anzi, dobbiamo allargare ancora il nostro popolo per costruire una forza della sinistra. Ma da lì, e da noi, dobbiamo partire. Come minimo.

Ma ormai è andata: alle amministrative avete rotto con il Pd dappertutto tranne Milano Cagliari e Trieste. E la rottura è l’insegna sotto cui nasce il nuovo partito. Dice il suo collega Galli: l’Italicum ha cancellato il problema del rapporto con il Pd, almeno a livello nazionale.

Detta così è ineccepibile. Ma al professore vorrei proporre un ragionamento più complesso. È chiaro, oggi n il tema del centrosinistra nazionale non si pone. E non solo per colpa dell’Italicum ma anche perché pensiamo che prima bisogna sconfiggere Renzi e il renzismo. Ma per sconfiggere Renzi dobbiamo essere una forza popolare, inclusiva, non possiamo disperdere il patrimonio di innovazione e governo che in questi ultimi anni abbiamo accumulato. Da Milano a Cagliari, per non parlare di tante città che spesso dimentichiamo. La sinistra o è inclusiva o non è, e se non è inclusiva è una ridotta, una piccola forza politica che approfitta della legge elettorale per ritrarsi di fronte alla sfida della costruzione di un ampio soggetto.

Molti suoi colleghi non la pensano così. Renzi o no, sostengono che il Pd ha subito una mutazione genetica. Insomma danno il Pd per perso alla sinistra.

Non sto minimizzando il tema dei mutamenti dentro il Pd. Però sull’Unità leggo un appello di alcuni compagni del Pd che dicono che bisogna rifare l’Ulivo. Va bene, l’Ulivo non si può più fare e questo è un fatto. Però questo un appello così è uno dei segnali da parte di chi pone il problema dell’identità del suo partito. Rispondo a questi compagni che se la pensano così non possono sfilarsi dalla lotta contro quello che oggi è il loro partito. Ma dovrei chiudere loro la porta in faccia? Io voglio dialogare con Speranza e con Bersani. Con loro ancora resta, sempre meno ma resta, un popolo di lavoratori, disoccupati. Voglio parlare con loro. E a loro che deve essere utile la sinistra, è con loro che devo essere credibile. O è così o c’è solo la testimonianza. Lo dico anche ai miei compagni. Io in un partito come Sel ci sono stato bene, benissimo, ne sono stato fondatore e dirigente, fin qui.

Che vuol dire? Con il nuovo soggetto potrebbe cambiare qualcosa?

Vuol dire che se si fa un nuovo soggetto la mia condizione è che devo preservare la mia comunità e portarcela tutta. Sarà faticoso, ma che la mia comunità si senta tutta coinvolta è l’unico modo per dire che facciamo una cosa più larga e inclusiva.

Con la minoranza Pd però ci sarà un appuntamento che dividerà ancora più profondamente, il referendum costituzionale. Non un dissenso qualsiasi, ma una divergenza profonda.

Non c’è dubbio. Ma da una parte ci sono i gruppi dirigenti, dall’altra le persone in carne ed ossa. Molte persone in carne ed ossa sono ancora rappresentate o in relazione con quel ceto politico. E se i loro dirigenti alla fine andranno a votare per il sì, i loro militanti invece ancora non lo so. Dobbiamo parlare a quel mondo. Così come a quelli che non vanno più a votare. Non c’è altra strada per riconquistare un popolo, per ricostruirlo e rimetterlo assieme. Un partito senza popolo è ceto politico e basta. Mi aspetto che l’assemblea Cosmopolitica non chiuda a niente, non salti a conclusioni e anzi dia il via per liberare tutte le energie di uomini e donne. Un nuovo soggetto deve camminare sulle loro gambe, a partire dai territori.

Vi diranno che siete nostalgici dell’Ulivo e troppi vicini al Pd.

Io sono vicino al popolo della sinistra. E la mia biografia parla chiaro. Non so chi può permettersi di fare l’analisi del sangue all’altro. Comunque non sarebbe l’atteggiamento migliore per costruire un partito aperto e inclusivo.