«Nato a Londra l’11 febbraio 1915; altezza 1 metro e 77; occhi marroni; capelli castani; segni particolari nessuno (…). Professione? – “Allora, cosa scriviamo?” – chiese il funzionario dell’Ufficio Passaporti indicando la casella. A me non veniva in mente nulla. Qualche anno prima, era molto in voga una canzone americana dal titolo Alleluja, sono un vagabondo!, che in quei giorni continuava a girarmi in testa, e si vede che senza accorgermene la stavo canticchiando mentre riflettevo, perché il funzionario rise dicendo: “Vagabondo non puoi proprio scrivercelo”. Dopo un attimo, aggiunse: “Io metterei studente”; e così feci».

Così, con un documento timbrato l’8 dicembre 1933, un Patrick Leigh Fermor diciottenne decide di abbandonare l’Inghilterra, cercando nel movimento un sollievo alla sua innata insofferenza per confini e regole – che gli costò anche l’espulsione dal King’s College di Canterbury – e una risposta al suo irruento, byroniano «bisogno di tradurre all’istante le idee in azioni».

Se il punto d’inizio è Hoek von Holland, nei Paesi Bassi, raggiunti con un piroscafo partito da Tower Bridge, l’obiettivo finale è Costantinopoli. Premesse e prima parte del viaggio – attraverso la Germania hitleriana e la Mitteleuropa, fino a un ponte sul Danubio che divideva la Slovacchia e l’Ungheria, e che proprio i tedeschi faranno poi saltare – sono descritte da Fermor nello splendido Tempo di regali, pubblicato solo nel 1977 (Adelphi 2009); mentre Fra i boschi e l’acqua (1986, Adelphi 2013) ospita il récit del suo passaggio nella Grande Pianura ungherese e in Transilvania fino alle Porte di Ferro, fra Carpazi e Balcani.

Servono dunque più di quarant’anni, a Fermor, perché il ricordo si depositi nello spazio ulteriore della scrittura. Ed è una scrittura destinata a lavorare prodigiosamente sulla sola memoria, in completa assenza di diari e taccuini, quasi tutti perduti.

Intanto Paddy – questo il soprannome affibbiatogli dagli amici – era già diventato, fra l’altro, l’autore di Mani, il libro-capolavoro dedicato ai suoi viaggi nel Peloponneso, apparso nel 1958 (Adelphi 2004). E aveva per la verità cominciato a lavorare proprio al racconto dell’ultimo tratto del suo peregrinare, provvisoriamente intitolato Un viaggio di gioventù. Fermor non riuscì mai a concludere la revisione di un manoscritto a lungo accantonato in favore dei primi due volumi, e a chiudere davvero la stesura del suo youthful journey.

Soltanto nel 2013, due anni dopo la sua morte, e grazie a un complicato lavoro di sistemazione del materiale superstite spiegato nella loro introduzione al volume, Colin Thubron e Artemis Cooper sono riusciti a consegnare al pubblico il tassello mancante della trilogia – che è ancora una volta Adelphi a proporre in Italia, nella bella traduzione di Jacopo Colucci –, cioè La strada interrotta Dalle Porte di Ferro al Monte Athos (collana «Biblioteca», pp. 365, euro 22,00).

Il titolo, scelto dai curatori, allude all’interrompersi degli appunti di Paddy, che a Bisanzio riserverà soltanto qualche rapida nota.

Costantinopoli – una meta che non sembrava «mai stata in dubbio, nemmeno per un attimo» – è dunque in qualche modo imprevedibilmente aggirata: lì Fermor sosta solo undici giorni, e il vero approdo si rivela – già in questa sua lunga fuga adolescente – la Grecia: la terra di Mani e di Roumeli, la Grecia che lo terrà con sé – a Kardamili – fino a poco prima della morte; la stessa Grecia che lo vede diventare, a Creta, un eroe di guerra (impersonato da Dirk Bogarde in un grande film di Powell e Pressburger del 1956, Colpo di mano a Creta). Qui a campeggiare – al chiudersi del volume, e di un cammino che dura più di un anno – sono invece i monasteri del Monte Athos, dove solo pochi anni prima era passato quel Robert Byron che è infatti letto e ricordato con entusiasmo dallo stesso giovanissimo Patrick.

E in effetti già nelle prime pagine della Strada interrotta l’Ellade e la sua cultura sono una miniera di immaginazione che si affaccia più volte – anche solo di sfuggita – alla mente di Fermor, fra nostalgia per la grandezza del mito o della storia e slancio vitale, come nelle rêveries cui Paddy si abbandona a Plovdiv, in Bulgaria: «Mi ubriacavo di quel complesso di odori che sembra costituire la vera essenza dei Balcani (…) e intanto mi domandavo se Alessandro (Magno ndr), da ragazzo, avesse mai visto questa città, fortificata da suo padre sul confine orientale del regno (…). Si riteneva pure che fosse il triste luogo in cui Orfeo perse Euridice». E più oltre, la Grecia sembra una specie di destino inevitabile quando, da un ponte sul fiume Strimone – in Macedonia – un Fermor improvvisamente fantasticante lascia «cadere una foglia di vite al centro della corrente, chiedendosi se sarebbe riuscita a raggiungere l’Egeo»: e così preannunciando la sua stessa sorte di qualche mese più tardi.

Come avviene mirabilmente in Tempo di regali o in Mani, anche ne La strada interrotta è questo anarchico alternarsi fra cultura e vita, fra memoria erudita o letteraria e necessità dei dettagli – delle schegge di realtà, anche quelle apparentemente insignificanti – a fare la bellezza delle pagine di Fermor.

Una memoria omerica o un verso di Orazio possono o anzi devono convivere con un aneddoto qualunque, o con un inaspettato manifestarsi della Natura. Così Paddy e Nadezda – una ragazza mezza greca e mezza bulgara, la cui gioiosa apparizione occupa i primi due capitoli del libro – possono rivedersi nelle mitiche vesti di Ulisse e Calipso, al momento del loro congedo definitivo. Ma intanto lo sguardo del narratore può anche essere, a più riprese, sedotto da un volo di cicogne – «un uccello di passaggio, come tutti noi» – dalla loro migrazione settembrina che segnala malinconicamente l’imminente fine dell’estate sull’Europa. Oppure, si può anche indugiare su un frammento di nessuna importanza, su un aeroplanino di carta imbastito e fatto volare da una veranda: «era bellissimo guardarlo mentre scendeva tranquillamente nel vuoto, giù giù giù, finché in fondo, ormai piccolissimo, è svanito fra le foglie».

Questa grana creaturale è probabilmente una radice decisiva per Fermor: assediato dalle cose, dal piacere (molto inglese, e tutto immanente) della percezione, del flusso degli eventi – anche «il suono degli zoccoli sull’acciottolato, le ruote dei carri, le urla dei venditori ambulanti e il rumore metallico delle bilance» in un piccolo paese diventano tutte «esche allettanti» –, il soggetto non è quasi mai narcisisticamente al centro della scena. Forse anche per questo la sua scrittura, per farsi così prensile, ha avuto bisogno di un distacco, di una presa di distanza durata decenni: ma oggetto di questa distanza doveva essere infine, più delle cose, la pressione dell’io su di esse. Spetta al racconto salvare infine ogni centimetro di vita nella sua singolarità – un trio di cormorani sul Mar Nero, la luce dell’orizzonte a Bucarest, un volto, una sera indimenticabile per il solo fatto di essere irripetibilmente unica – e affidarlo a chi si avventuri fra questi capitoli. Perché agisce certamente, in Fermor, un’ansia di déreglément, di libertà assoluta, ma questa deve pur sempre fare i conti anche con un’idea ancora saldamente umanistica – vedi la sua passione per i classici greci e latini, o per la poesia inglese – di Bildung, di educazione.

C’è insomma, accanto a un viaggiatore ‘senza scopo’, un altro viaggiatore che non cerca nichilisticamente la dispersione di sé, ma vuole piuttosto custodire, fare ‘valore’ della propria esperienza: au fond de l’inconnu pour trouver du nouveau, con il suo Baudelaire, ma insieme, più classicamente – e in maniera fascinosamente contrastiva – per conoscere (magari per tornare). Anche da qui, credo, nasce e si alimenta l’amore necessario di Fermor per le lingue imparate per via (il tedesco, il rumeno, il greco): un dono, e lo strumento più adatto e autentico per afferrare davvero l’Altrove, per ricostruire una propria familiarità con l’Ignoto, una propria – pur diversa – ‘casa’. Diceva fra l’altro Paddy che, quando si scrive, lo si fa assumendo come destinatario a very close friend, un amico molto caro. Sarà per questo che ogni sua pagina arriva, a chi la ascolti, come da una voce nuda, talvolta ironica ma sempre potentemente naturale, priva di finzioni, di costruzione: una voce umanissima e fraterna.