Nato nel 1915 e morto esattamente dieci anni fa, Patrick Leigh Fermor non è, forse, l’homo europaeus di cui sentiva la nostalgia e favoleggiava il primo Novecento, quel Novecento che – a Vienna come a Parigi o Firenze – ha sentito la cultura come l’ultimo baluardo per l’Occidente vicino alla sua fine. Lettore coltissimo, Fermor non sa comunque separare la cultura dall’esperienza, dal piacere del rapporto umano, dell’immaginazione, del viaggio. Sa che la cultura è anche una gabbia. E che, anzi, il dissidio cultura/natura è il problema dei problemi lungo tutta la storia dell’uomo occidentale. Sa anche – diversamente da tanti viaggiatori-scrittori, specialmente italiani, della prima metà del secolo ventesimo – che la Grecia non è solo rovine, grandezza passata e sapienza classica. La sua è una Grecia diversa: è forse soprattutto semplicità e vitalità – la vitalità, a volte anche malinconica, del suo presente.

Fermor ha raccontato la Grecia in diversi suoi libri. A cominciare dal suo titolo tuttora più noto probabilmente, ovvero Mani (1958), dedicato a un dito del Peloponneso seduttivo quanto – almeno all’epoca – davvero inaccessibile. Ma a culminare in terra ellenica è anche l’ultimo volume della sua superba trilogia – La strada interrotta (2013) – pubblicato postumo, che conclude il cammino iniziato con Tempo di regali (1977) e proseguito con Fra i boschi e l’acqua (1986), tutti ospitati, in Italia, dal catalogo Adelphi: in quel caso l’approdo è il Monte Athos, con i suoi monasteri e i suoi imprevedibili abitatori (al fascino dei monasteri europei Fermor aveva già dedicato, nel 1953, A time to keep silence, che ancora attende una versione nella nostra lingua).

La punta estrema del Peloponneso e il Monte Athos sono luoghi che poco hanno a che fare con l’immagine più attesa e comune della Grecia, con i suoi colori e i suoi toni più «facili», come il bianco e blu cicladico. Fermor insegue insomma lo charme di luoghi almeno apparentemente marginali e più severi, come quelli che vengono descritti e raccontati anche in Rumelia Viaggi nella Grecia del Nord (Adelphi «La collana dei casi», pp. 291, € 20,00), in una traduzione, quella di Daniele V. Filippi, che ha il merito di riuscire a domare un inglese per niente semplice, e anzi ricchissimo. «Sulle mappe della Grecia di oggi – avverte l’autore – il nome Rumelia non si trova». Un toponimo enigmatico, dai confini sfumati, che identifica «la parte settentrionale del paese (…), dal Bosforo al mare Adriatico e dalla Macedonia al golfo di Corinto». Confini che la storia, con le sue guerre e i suoi mutamenti, ha lentamente lavorato a erodere, a spostare. Si potrebbe dire, in un certo senso, che la Grecia di Fermor è la terra dei racconti, delle canzoni, dei volti incontrati per via e in presa diretta da questo stupendo vagabondo; ma allo stesso tempo, paradossalmente, è anche e sempre una Grecia perduta o sul punto di svanire (e intanto, sulla copertina dell’edizione adelphiana, troneggia infatti una malinconica e bellissima fotografia di Delfi, scattata negli anni cinquanta dalla moglie di Fermor, la sua Joan). L’inizio del libro, per esempio, è incentrato sui Sarakatsani, una popolazione di pastori transumanti che dalla Grecia settentrionale si spinge fino alla Bulgaria, all’Albania e alla Macedonia del Nord, e che qui sono descritti in effetti come degli «autentici nomadi in autoesilio (che) aleggiano ai margini della vita ordinaria in Grecia, inafferrabili come miraggi». Fermor ne racconta i movimenti, le insondabili origini, gli usi e persino la lingua: perché questo straordinario scrittore è affezionato alle parole del passato – ai relitti della lingua – come il cercatore di pepite al suo oro (in fondo la stessa Rumelia è appunto una parola quasi irrimediabilmente cancellata). Chi scrive questo resoconto è senz’altro un giramondo curioso, che può anche partecipare fortunosamente a un matrimonio e così spiare da vicino i costumi dei Sarakatsani. Ma il viaggiatore si salda profondamente, in queste pagine, allo storico, al linguista o all’antropologo senz’altro. Si potrebbe dire, rubando un’espressione a Marc Augé, che una delle migliori qualità di Paddy – così suona il leggendario soprannome di Fermor – è semplicemente il suo ‘senso degli altri’, la sua attenzione per il diverso, per l’eccentrico, in ogni caso per l’autentico.

La stessa qualità si ritrova in tutte le altre parti di Rumelia, dal capitolo dedicato ai monasteri dell’aria – cioè alla zona delle Meteore – fino all’ultimo, rapsodico passaggio imperniato sui Suoni del mondo greco, una specie di fulminea geografia uditiva della Grecia: «Salonicco è una lite per una bolla di carico (…), Volos lo schiocco dei gettoni da backgammon, Patrasso il cigolio delle gru in azione, Samo il borbottio di un narghilé…». Ma ad accrescere l’incanto di questa scrittura – e a rendere forse Rumelia il vero capolavoro del Fermor ‘ellenico’ – sono soprattutto due armi: l’ironia e il talento narrativo. A proposito della prima, il cuore del libro sono le parti dedicate al «dilemma elleno-romaico», ovvero alla convivenza, nella Grecia moderna, delle radici classiche e di quelle romano-bizantine, che danno luogo a due visioni del mondo che si intrecciano e spesso si scontrano. Il lettore si troverà anche a sorridere, allora, di fronte a una tabellina che sintetizza i principî fondamentali di chi si sente erede di Bisanzio e di chi, invece, si sente piuttosto figlio di Atene (fermo restando poi il fatto che entrambi questi tipi umani condividono, secondo Fermor, l’idea che «i problemi del mondo si risolvono al bar, con infinite tazze di caffè turco»). Quanto invece alla pura seduzione del racconto, il campione migliore sta forse nella parte – miracolosamente elegante, aristocratica e insieme rocambolesca – in cui Paddy si getta alla ricerca di un altro preziosissimo relitto, questa volta molto concreto: un paio di scarpe appartenute a un altro straordinario amante dell’Ellade, cioè nientemeno che a Lord Byron (un cimelio inseguito grazie alla conoscenza di una pronipote del poeta inglese, Lady Wentworth, che con la sua classe british è la protagonista del capitolo intitolato A nord del golfo di Missolungi, dove Byron ha appunto costruito e consumato il suo mito).

Al di là della tecnica e della bellezza di queste pagine, resta poi insostituibile la freschezza dello sguardo di Fermor: una capacità di guardare le cose come fosse la prima volta. A metà del libro entra anche una «digressione» dedicata all’isola di Creta. Un luogo fondamentale nella biografia di Fermor: Creta lo vede infatti diventare protagonista della resistenza all’esercito nazista, durante la seconda guerra mondiale (un luogo del cuore, non a caso paragonato, altrove, proprio al paesaggio del suo Mani, della sua Kardamyli, dove Paddy trascorrerà gran parte della sua vita). Ebbene, nella descrizione del paesaggio cretese, che occupa alcuni magnifici paragrafi, a tenere la scena non è l’elemento naturale per eccellenza – la luce, cantata da tanta poesia greca, da Seferis al cretese Elitis – ma addirittura il suo opposto: l’ombra, l’ombra delle grotte, delle rocce e degli ulivi, sinistra e inquietante mentre il sole tramonta. È questa stessa freschezza, questa infinita disponibilità amorosa nei confronti della Grecia a farci perdutamente innamorare di lui, anche quando ci racconta di una giornata qualunque, ma come se fosse un dono: «Il rumore martellante degli zoccoli sulle assi sconnesse del ponte e i canti della lunga cavalcata risuonavano ancora nelle mie orecchie. E poi la splendida salita fra le colline, l’arrivo all’accampamento al tramonto, e ora le voci, le risate, i volti dei nomadi che le fiamme mascheravano d’oro in questa capanna fra le montagne scure; la stanchezza fisica, la sensazione di essere perso nel tempo e nello spazio, l’indistinta prospettiva di mesi e anni magici e imprevedibili che scintillava davanti a me – tutto si fondeva dandomi l’impressione che la vita non potesse offrirmi di più».