Albert Speer, l’architetto del Führer, appare in un piccolo ritratto dall’inquadratura stretta, come fosse la foto segnaletica di un uomo assorto, perduto in un altro universo, indifferente alla realtà del presente.
È un’opera minima (per misure) ma grande per la sua sintomaticità, quasi una chiave di volta per entrare nel pensiero dell’artista belga Luc Tuymans (Mortsel, 1958): si intitola Secrets e taglia via dal campo visivo ogni dettaglio che non sia il volto del personaggio dipinto, con il conosciuto effetto flou che fa affondare nelle sabbie mobili la memoria, per poi lasciarla riaffiorare con colpi di luce e spatolate di colore, recuperata finalmente allo sguardo. Speer così, con quella pittura interrotta che si nutre di cieli grigi e della sostanza delle nuvole, finisce fuori dalla Storia, proprio come è accaduto nel corso della sua esistenza. Mente delle architetture totali dei campi di concentramento, si è finto innocente, negando di conoscere gli orrori dell’Olocausto e i media hanno accreditato la sua verità, consacrandone il successo di icona significante di un’epoca, quella nazista con il suo ingombrante portato di «banalità del male».

È a questo punto che interviene il pennello di Tuymans: blocca il fotogramma di un filmato su di lui (in vacanza sulla neve, a sciare con la moglie) ed estrapola un ritratto. La verità e la finzione rendono incerti i confini ma la pittura è «un’occasione di resistenza, una rivincita dell’immagine contro il potere nascosto», una possibilità di approfondimento e analisi sul filo del doppio specchio di verità e finzione. Sono questi due, infatti, i termini concettuali entro i quali si dipana l’arte di questo autore fiammingo, in una interrogazione rivolta al mondo intero, che insiste sulla fallacia del ricordo, della ricostruzione documentaria e la testimonianza incontrovertibile.

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Protagonista della mostra appena inauguratasi presso Palazzo Grassi a Venezia (la prima sua personale italiana, visitabile fino al 6 gennaio 2020), a cura di Caroline Bourgeois e dello stesso artista – che non disdegna l’alternanza dei ruoli, basti citare Sanguine, allestita per la Fondazione Prada di Milano – Luc Tuymans ha scelto di raccordare il suo percorso espositivo al romanzo di Curzio Malaparte, La pelle, facendo riferimento alle asperità di quel racconto sulla decadenza umana e al profilo sfuggente dello scrittore medesimo. «Nonostante quel suo libro non fosse un esempio di letteratura formidabile, Malaparte è stato un personaggio originale, forse un megalomane, ma il suo percorso l’ho giudicato interessante per il ruolo ambiguo che ha incarnato – afferma -. Nel romanzo si descriveva la Napoli affamata della fine della seconda guerra mondiale, al tempo della liberazione americana. Ovunque albergava il caos totale e non potevo non notare le molte somiglianze con l’Europa nella quale ci troviamo a vivere oggi». Oltretutto, spiega, «nei miei dipinti scorre sempre qualcosa di oscuro, sotto pelle», una corrente emotiva non epidermica ma che riguarda da vicino l’assunzione di responsabilità di fronte allo svolgersi dei fatti.

Tuymans torna in Laguna dopo aver guidato il padiglione del Belgio alla Biennale nel 2011. Anche questa volta, ha affidato alla mutevolezza della percezione gli appigli della memoria, inoculando nell’osservatore i profili di soggetti improponibili. Camere a gas, il serial killer Issei Sagawa, cannibale che divorò la sua compagna di studi preferita, gli organi interni del corpo e le cartelle cliniche (la serie Diagnostic Blink) che descrivono la nostra finitezza e mortalità. O, ancora, ha dipinto l’archivio dell’orrore, le mani e gli occhi di gemelli tzigani (classificati dentro valigette anonime), sui quali venivano condotti esperimenti dai medici del nazismo. Tuymans riconsegna quei bambini alla storia, vanificando l’oblio che li ha uccisi due volte.

«Le mie mostre non sono per esperti del settore, ma per il grande pubblico. Per questo motivo non ho voluto qui a Palazzo Grassi nessun testo sui muri, i visitatori non vanno sottovalutati. Eppure non sono un artista naïf. L’anacronismo della pittura è un elemento specifico: è la prima concettualizzazione visiva che si possa immaginare, dalle grotte in poi. Venezia può inoltre contare su una pittorialità intrinseca: è un luogo aperto, cangiante, smosso dall’acqua. Quando espongo, non mi chiudo in una white cube: tutti i significati sono presenti ma sotterranei, striscianti. Una pittura ’maldestra’ esprime e invita alla diffidenza. Lavora attraverso il tempo e assume su di sé ogni perversione. È anche un momento di pura revanche».

In netto contrasto con l’evanescenza del suo pennello, l’artista ha realizzato appositamente per l’atrio di Palazzo Grassi un mosaico, rovesciando la natura del materiale utilizzato, la durezza del marmo. Un’opera imponente (dieci metri per dieci) che a prima vista sembra un’elegia giapponese sulla primavera ma che si rivela essere in linea con la terribilità delle altre. «Il mosaico è una tecnica molto italiana. Il marmo mi piace perché accoglie le variazioni della luce. Anche qui, le tessere dissimulano il senso di morte che aleggia». Il disegno degli alberi, infatti, è una copia in grande formato di quelli trovati in un campo tedesco di lavori forzati (Schwarzheide). I detenuti riproducevano su fogli di carta – che successivamente tagliavano in scampoli, per non farli confiscare dalle guardie – gli alberi delle foreste che vedevano oltre il recinto del loro luogo di detenzione.

Se l’altalena filosofica di Luc Tuymans s’impenna sempre tra intuizione di verità e illusione, diventa simbolica nella sua produzione quella Simulation che riproduce il progetto di John Lasseter per un film d’animazione in 3D, tratto da Maurice Sendak e il suo libro Nel paese dei mostri selvaggi. L’artista riporta in vita lo schema della casa (mai nata su schermo) dei bambini: l’immagine, ancora una volta, racconta quel che non si vede, il tempo sospeso. «C’è sempre un conflitto fra tenerezza e violenza, o tra astrazione e figurazione: è necessario che il nostro sguardo coltivi l’idea dei sottintesi , che vada oltre la trivialità di ciò che vediamo. Nell’epoca dei social network e di Netflix, siamo bombardati da informazioni e immagini, ma la pittura è prima di tutto un fatto fisico, ci permette di tornare indietro, di concederci una pausa e attivare la sfocatura del distacco e della riflessione».

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I colori di tono abbassato, l’effetto nebbia dei suoi dipinti sono, infatti, contemporanei alla scoperta del soggetto che l’artista vuole ritrarre; non c’è un intervento successivo sulla fotografia, per esempio, come avviene in Gerhard Richter. Tuymans dice di essere debitore alla tradizione documentaristica belga e a pittori come Van Eyck, Velazquez o Manet. Soprattutto, è interessato a quel loro mostrare, nel bel mezzo della figura, improvvisi spazi vuoti che tendono a divenire porzioni astratte, ad allontanarsi dalla mimesi. Come ben testimonia il suo coniglio (The rabbit, 1994) quasi radioattivo. L’animale devia da una pacifica natura per trasformarsi in essere alieno, presenza minacciosa e foriera di narrazioni inconsuete.