Ci guardano da una distanza interminabile. Guardano nel vuoto di un destino che non hanno avuto poiché la nascita li ha rinchiusi in un intervallo di tempo miserabile, quello necessario a farne carne da mangiare. Stanno rinchiusi nelle gabbie, stretti l’uno all’altro in un fitto labirinto di dolore senza senso. Ed «è quasi certo che gli animali ritratti in queste pagine siano morti, adesso.
È in questo riferimento alla morte il nucleo perturbante della fotografia», scrive Benedetta Piazzesi in Un incontro mancato. Sul fotoreportage animalista (Mimesis, pp. 80, euro 10) accompagnata dalle foto di Stefano Belacchi che mostrano quanti corpi e quanto dolore vengano generati, prodotti e stritolati ogni giorno in anonime strutture delle quali sembra non conosciamo altro che il loro risultato in insaccati e in pezzi di vita morta e congelata dentro i supermercati.

DI FRONTE a questa familiare enormità elaboriamo dei filtri necessari a porre una distanza, a mancare l’incontro: «Un rassicurante repertorio cognitivista (“non possono avere il nostro stesso tipo di sensibilità”), o la constatazione di un inevitabile utilitarismo (“è triste, ma come potremmo vivere altrimenti?”).
Le voci bestiali che bucano la superficie visiva finiscono soffocate dalle nostre parole. Il grido singolare nella notte in logos che dissipa le ombre». Questo libro riesce a farci ascoltare tale grido, e riesce a dare così inizio a un itinerario dentro noi e nel sociale che ci liberi dall’impotenza della fotografia, anche di quella esplicitamente animalista, vittima di una triplice passività: quella dell’animale immobilizzato negli allevamenti, quella del fotografo -poiché chi fotografa non può intervenire e chi interviene non può fotografare-, quella di coloro che osservano la fotografia.

IL RAGIONARE lucido e logico di Piazzesi pone il discorso sul vivente e la sua iconografia non soltanto di là dell’ambientalismo conservazionista ma anche oltre lo stesso animalismo. Si tratta infatti di un ragionare che punta all’essere dei corpi, a una ontologia fondamentale che critica i dispositivi che riproducono il dolore senza altro poter fare. Un ragionare ben consapevole del fatto che «dando in pasto la carneficina animale al mondo dello spettacolo il massimo che ci possiamo aspettare è il risveglio di quella ciclica indignazione del telespettatore che è il sentimento politico borghese per eccellenza». E invece qui si abita nel punto di collisione che resiste con il suo stesso esserci: il corpo vivente. Un ragionare che diventa laterale rispetto a ogni antropocentrismo, che cammina oltre la millenaria ma sciocca pretesa di essere i signori del mondo. Un ragionare che documenta la miseria teoretica di chi ritiene che gli altri animali siano senza volto.
Le immagini di Stefano Belacchi lo mostrano infatti questo volto, cogliendo l’individualità e dando forma al ritratto, obiettivo -questo- che «è la grande ambizione della fotografia animalista» in modo da restituire «agli animali il loro statuto di individualità viventi e non di cose».

EMERGE INFINE che siamo noi i veri «animali da allevamento» mentre l’animale non umano ha ancora e sempre bisogno di coercizione e internamento per rinunciare alla sua libertà. «Libertà senza socialismo è privilegio, diceva Bakunin. In quanto schiavi materiali del capitalismo, gli animali ci mostrano che la nostra libertà è un privilegio condizionato e revocabile. Contro questa libertà/minaccia c’è chi libera gli animali al di là della legge».Questo libro ci svela volti di persone animali che ci guardano da una vicinissima distanza.