Sono arrivati alla spicciolata mentre il flusso di fedeli musulmani che aveva affollato la Spianata della moschee per le preghiere del venerdì, lasciava la città vecchia passando per la Porta di Damasco, facendo lo slalom tra le bancarelle di ambulanti decisi a vendere tutto. Poi poco alla volta il numero degli attivisti israeliani contro l’occupazione è aumentato. Alle 13.30, l’ora del raduno, erano più o meno 150. Pochi ma fino a un certo punto se si considera che Israele ha appena riconfermato al potere, con un mezzo plebiscito, Benyamin Netanyahu, il suo partito Likud e il resto della destra. Tra gli attivisti alcuni volti noti di tante battaglie, quasi tutte perse, ma anche giovani, ragazzi delle scuole superiori. Hanno issato gli striscioni con le scritte “Stop all’occupazione”, “Fermate la colonizzazione di Gerusalemme”, “No all’espulsione dei palestinesi”, e tra rulli di tamburi si sono avviati verso via Salah Edin, l’arteria commerciale della Gerusalemme araba.

 

La polizia è intervenuta subito sequestrando striscioni e cartelli. Gli agenti a cavallo hanno fatto capire di essere pronti ad intervenire. Il corteo perciò si è sciolto per evitare scontri che, come sempre accade da queste parti, alla fine avrebbero visto i palestinesi e non gli attivisti israeliani avere la peggio. Ma si è ricostituito a distanza di poche centinaia di metri, verso la Porta di Erode, dove i partecipanti hanno ripreso ad scandire slogan. La manifestazione è terminata alcuni minuti dopo. «Siamo pochi, nessuno può negarlo eppure è importante riprendere la nostra lotta assieme ai palestinesi, contro l’occupazione, il razzismo, l’apartheid», dice Asher, che preferisce non usare il suo vero nome. «Si è fatta dura per chi non pensa come vuole il sistema – spiega – in questi ultimi due-tre anni lo Shabak (servizio segreto interno,ndr) ha minacciato tanti di noi. Subiamo perquisizioni, interrogatori. Siamo sorvegliati, le nostre ong ed associazioni sono prese di mira. Ci chiamano traditori, dicono che facciamo il gioco dei terroristi, degli arabi». Eppure, nonostante la solitudine politica persino peggiore delle intimidazioni, Asher assicura che andrà avanti. «È molto importante denunciare quanto subiscono i palestinesi – aggiunge –, l’aggressività dei coloni (israeliani) sta aumentando con il passare dei mesi. Due famiglie (palestinesi) rischiano di essere buttate fuori dalle loro case, la Sob Laban nella città vecchia e la Shamasne nel quartiere di Sheikh Jarah. I coloni intendono creare un anello di insediamenti intorno alla città vecchia, per assicurare il controllo di Israele su tutta Gerusalemme».

 

Della manifestazione, seppur piccola, degli attivisti israeliani non c’è traccia sui mezzi d’informazione internazionali. Molto più spazio ha trovato la “generosità” del premier Netanyahu che ha dato il via libera alla restituzione all’Anp di Abu Mazen dei fondi palestinesi – centinaia di milioni di dollari – frutto della raccolta di tasse e dazi doganali che aveva confiscato nei mesi scorsi dopo la decisione della Palestina di aderire alla Corte penale internazionale. L’ufficio del premier parla di decisione dettata da considerazioni di carattere umanitario. In realtà sono state le pressioni dei servizi segreti e dell’esercito che hanno descritto l’Anp sul punto di crollare, con decine di migliaia di dipendenti pubblici palestinesi rimasti senza stipendio per mesi, inclusi gli agenti del mukhabarat che collaborano attivamente con la sicurezza israeliana. Pare che il ministro della difesa Yaalon abbia spiegato a Netanyahu che la fine dell’Anp è contro, prima di tutto, gli interessi di Israele. Vedremo come il nuovo governo israeliano reagirà dopo il Primo aprile, quando sarà ufficializzata l’adesione della Palestina alla Cpi. Si guarda all’atteggiamento di Abu Mazen. Voci insistenti riferiscono che i vertici palestinesi, contrariamente a quanto hanno dichiarato dopo la riconferma di Netanyahu, ritarderanno la richiesta di indagine contro Israele per crimini di guerra.

 

Più spazio avrebbe meritato il rapporto “Vite Spezzate” presentato questa settimana da Ocha, l’ufficio per il coordinamento degli affari umanitari dell’Onu, che riferisce che il numero di civili palestinesi uccisi da Israele nel corso dell’ultimo anno in Cisgiordania e a Gaza ha superato 1.500, il più alto da quando è iniziata l’occupazione nel 1967. Gran parte sono morti nei bombardamenti su Gaza della scorsa estate o sono stati colpiti durante raid nei campi profughi o per disperdere manifestazioni contro l’occupazione. In tutto, l’anno scorso gli israeliani hanno ucciso 2.314 palestinesi – 2256 di Gaza e 58 residenti della Cisgiordania e Gerusalemme Est. Sono stati uccisi anche 85 israeliani: 66 soldati e quattro civili, tra cui un bambino, durante la guerra di Gaza, altri 15 in Cisgiordania.