Due lavoratori di un supermarket hanno sorpreso due donne nomadi che rovistavano tra i gabbiotti dei rifiuti, in un’area riservata agli «addetti ai lavori». Le hanno chiuse in uno dei gabbiotti e le hanno videoregistrate.
Scimmie in gabbia, secondo la loro messa in scena. Sono stati indagati per sequestro di persona.

Matteo Salvini, si è precipitato in loro soccorso, promettendo assistenza legale.

Successivamente una delle nomadi ha dichiarato di conoscere i suoi sequestratori: due bravi ragazzi che non comprendeva perché le avessero fatto questo brutto scherzo. Certo, ha aggiunto, non ci pensava proprio di ripassare dalle loro parti.

Il reato commesso va al di là del sequestro di persona: alla restrizione arbitraria della libertà si aggiunge una violazione grave della dignità umana dal chiaro intento razzista. In un paese democratico, consapevole della forza delle sue istituzioni, di fronte a una crisi di valori di cui la «bravata» dei due razzisti è un sintomo inequivocabile, il presidente della Repubblica avrebbe dovuto parlare a voce alta. Avvertire tutti che la democrazia non è un regime clientelare molle e compiacente, ma una forza ferma e temibile per i suoi nemici.
Assistiamo, invece, al silenzio pavido delle istituzioni e delle forze politiche, preoccupate di non contraddire i sentimenti di xenofobia che si diffondono a macchia d’olio nella popolazione. La viltà assurta ad arte politica è un’infezione terribile e, a lungo andare, mortale per la democrazia.

La libertà dei cittadini non è vera se essi non possono collocarsi in posizione eccentrica rispetto alla loro identità di appartenenza alla Polis. Perciò la forza della democrazia sta nella sua capacità di estendere i suoi confini per includere anche coloro che vivono ai margini della società civile e politica, i «senzatetto» sul piano del diritto.

Lo spettacolo della donna aggredita che intervistata deve aggrapparsi al suo statuto di elemosinante/rovistante e alla sua richiesta di bontà (senza, peraltro, ricavare più della lezione di girare alla larga da imprevisti) è avvilente.

I due «bravi ragazzi» rievocano, attraverso il film di Martin Scorsese, la «banalità del male», la triste quanto geniale intuizione di Hanna Arendt. I sentimenti e i pensieri rassicuranti, mediamente «normali», spesso scambiati per umanità, un manuale applicato di luoghi comuni impersonali dell’emotività che copre un’anaffettività glaciale.

L’elemento sadico, che sembra apparire dal nulla, ricorda la crudeltà dei bambini con gli animali, il loro attaccare in essi la propria vulnerabilità e, al tempo stesso, l’inaccessibilità degli oggetti desiderati. Trasformano in eccitazione l’impossibilità di coinvolgere e sentirsi coinvolti e sono condannati a un destino di aridità, se l’amore che annaspa nella distruttività non viene riconosciuto e accolto.

Nella società degli adulti la crudeltà segnala uno svuotamento di umanità già compiuto. La disumanizzazione di sé usa la figura della «scimmia» con due fini convergenti anche se formalmente opposti.

Da una parte il soggetto disumanizzato la proietta consapevolmente sull’altro come sinonimo di sub-umanità, per collocarlo in posizione di inferiorità, nell’ambito di gerarchie brutalmente, biologicamente determinate.

Dall’altra, si identifica inconsciamente con la sua potente animalità, per conferire alla propria distruttiva a-vitalità la qualità di una forza naturale. Ciò che negli abusanti delle nomadi e nei loro «mandanti morali» resta sano, va in cerca di una opposizione/punizione che fermi il processo disumanizzante.

È giusto e necessario fermarli in tempo, senza tentennamenti.