Tutti i libri di Pietro Spirito hanno un debito con i fatti della Storia, cominciano negli archivi, nascono da preliminari studi delle carte, prima di diventare romanzi che di quella memoria di partenza colmano con l’immaginazione letteraria le tessere mancanti, i buchi neri che dividono le coscienze e intere comunità. Basti pensare al reportage sull’affondamento del Baron Gautsch, il nostro piccolo Titanic, Le indemoniate di Verzegnis o Un corpo sul fondo, storia dell’equipaggio del sottomarino italiano Medusa, che fu abbandonato e lasciato morire in acque istriane.

LO SCRITTORE vive a Trieste, dove è giornalista culturale al «Piccolo», in una città ancora segnata fortemente dai fatti della Storia e dal suo blasone asburgico, crocevia etnico, città di frontiera per sua natura, e affabula, congegna le sue storie dentro l’immaginario vivo di questa terra, sempre con un bisogno formale di mettere ordine al caos di una memoria dispersa, mischiando insieme in un ibrido eccentrico memoria archivistica, reportage, esplorazione paesaggistica e narrativa d’invenzione. Anche Il suo nome quel giorno (Marsilio, pp. 180, euro 16.50), il suo ultimo romanzo, ha questa fisionomia e affonda in una verosimile storia di esuli dall’Istria che comincia nel 1961 in un campo di Trieste dove Vera, la madre della protagonista, ragazzina, sfollata con la famiglia da Baredine, prende coscienza in una baracca del suo sradicamento, esistenziale e politico, e vive sulla propria pelle l’arte difficile e spietata della sopravvivenza.

QUESTA STORIA LONTANA, che comincia nel gennaio del 1961 a Trieste, nel campo profughi allestito nella città di confine, in realtà si riaccende nell’ottobre del 2008, quando sua figlia Giulia, che vive a Cape Town, «la punta estrema di un altro continente», si mette in contatto via mail con Gabriele Sala, archivista alla cassa pensionistica dei marittimi, «custode di memorie», il quale decide di aiutarla, che si ritrova di fronte al dilemma della sua doppia identità: «Giuliana Striano, nata a Roma il 15 gennaio 1960, figlia di immigrati italiani, che viveva in Sudafrica secondo tempi, modi, lingua e consuetudini del Sudafrica. E poi c’era Giulia Vogric, nata a Trieste il 3 settembre 1961, figlia di profughi fuggiti da un regime comunista, cresciuta non si sa dove e ufficialmente scomparsa all’età di diciotto anni».

Qui inizia un giallo esistenziale, nel quale l’autore dissemina nel corso della narrazione gli indizi che porteranno verso lo svelamento drammatico dopo il quale le due donne diventano una sola, e le due storie che ha vissuto si ricongiungeranno nella stessa trama esistenziale, risolvendo un enigma prodotto dalla Storia e dalla tragedia di un’epoca. Gabriele, che si trasforma in una specie di detective, è un uomo solitario, entrare nella vita di un altro, nella fattispecie in quella Giulia, un po’ colma i vuoti della sua esistenza irrisolta, fatta di un matrimonio fallito alle spalle, «la separazione da Laura, la moglie giovane e un po’ matta» e un recente amore fragile.

SPIRITO fa un abile montaggio di narrazioni in un sistema riuscito di vasi comunicanti, e il libro pendolareggia tra ieri e oggi, quando le storie della Storia ci fanno capire come i grandi fatti nel tempo producono ferite e lacerazioni non rimarginabili nelle vite dei molti. Alle narrazioni principali, s’innestano reperti memoriali, e dettagliate descrizioni del paesaggio carsico che diventa un fondale necessario per ricreare un conio antropologico. La scrittura è sobria e in bianco e nero, ben aderisce alle storie narrate, riuscendo con perizia a rendere il clima esistenziale di due epoche, soprattutto quando deve ricostruire la vita al campo profughi, con i suoi conflitti, le crudeltà, le vendette e la morte.
Molti personaggi di questo libro inseguono il fantasma della propria leggenda privata, a cominciare da Giulia, che ripercorre il suo film esistenziale facendo un viaggio a ritroso nel tempo, incontrando senza pacificarsi la madre biologica che per disperazione l’ha dovuta abbandonare, Gabriele Sala, che suo padre non l’ha mai conosciuto, e il suo amico e vicino di casa Jože, «un vecchio sloveno barbuto», solitario come lui, che a 9 anni vide morire sua madre sul passo Liubelj, al confine tra la Slovenia e l’Austria, trasferita lì dai nazisti dal campo di Matuthausen; ognuno con la propria ferita, «il lascito di un tempo sbagliato, un pegno non richiesto», in cerca di una nuova e difficile ragione di vita.