«Non è normale che quando una donna esce di casa rischi la vita. Rischia di essere violentata e uccisa». Con queste parole Jean-Claude Ilunga, attivista congolese e presidente dell’associazione “Les amis du Congo solidarité” a Bruxelles definisce in maniera lapidaria la situazione socio-politica femminile nella Repubblica democratica del Congo.

Ilunga ha lasciato il suo Paese 40 anni fa per emigrare a Bruxelles dove vive e lavora tutt’ora nell’associazione da lui stesso fondata che ha come obiettivo l’essere un punto di contatto primario per l’integrazione di immigrati e ponte tra le prime e seconde generazioni di congolesi in Belgio.

«L’EST DEL CONGO è in preda alla violenza da 20 anni. Tutti i giorni in questa parte del Paese ci sono dei massacri – prosegue Ilunga – ma se non si tratta di ambasciatori non se ne parla. Il riferimento è all’assassinio dell’ambasciatore italiano Luca Attanasio nello scorso febbraio – evento che aveva portato l’attenzione mediatica sui diritti umani nello Stato centraficano. Per Ilunga «non si va a lavorare in un Paese per morire, non è normale. Per me l’uccisione dell’ambasciatore è una catastrofe»,

La Repubblica democratica del Congo continua a vivere in un clima particolarmente instabile. Soprattutto nelle province orientali del Nord e Sud Kivu persiste la presenza di bande armate, di milizie non governative, di ex-militari e di gruppi tribali, i quali effettuano razzie e massacri di civili.

SECONDO L’ULTIMO RAPPORTO del segretario generale al Consiglio di sicurezza dell’Onu, l’insicurezza è aumentata ulteriormente nella parte orientale del Congo dopo le crescenti tensioni politiche all’interno della coalizione di governo, culminate col suo scioglimento da parte del presidente della Repubblica, Félix Antoine Tshilombo Tshisekedi, nel dicembre 2020.

 

“Informiamo le donne per spazzare via la violenza”. Goma, una protesta dell’8 marzo 2011 (foto Ap)

 

L’anno scorso, la Missione di stabilizzazione delle Nazioni unite nella Repubblica democratica del Congo (Monusco) ha documentato 1.053 casi di violenza sessuale legata al conflitto che hanno colpito 675 donne e solo tre uomini e cinque ragazzi. La maggioranza (700) è stata attribuita a gruppi armati non statali. Gli attori statali hanno rappresentato i casi rimanenti, tra di essi 239 violenze sono attribuite alle Forze armate della Repubblica democratica del Congo (Farc), 76 alla Polizia nazionale Congolese e 38 ad altri attori dello Stato. Le violenze perpetrate dalla polizia hanno riguardato per oltre la metà i minori e si sono verificati all’interno delle case delle vittime, nei centri di detenzione, nei campi o in altri luoghi isolati.

LA DISPONIBILITÀ DEI SERVIZI pubblici sanitari in Congo è molto precaria, a causa dei continui soprusi e conflitti tra bande armate. Già dal 1999, per affrontare la continua emergenza e cercare di salvare le vite di migliaia di donne, è stato aperto l’ospedale Panzi a Bukavu, il capoluogo della provincia del Sud-Kivu. Il centro è specializzato nel trattamento dei sopravvissuti alla violenza, la maggior parte dei quali ha subito abusi sessuali (200 letti su un totale di 350).

Per fare fronte a questa emergenza medica e umanitaria il professore Guy Bernard Cadière, esperto di chirurgia mininvasiva all’Ospedale Saint Pierre di Bruxelles, è da un decennio impegnato assieme a Denis Mukwege, medico congolese specializzato in ginecologia e ostetricia, fondatore nel 1998 del Panzi Hospital a Bukavu, ospedale in cui è diventato il massimo esperto mondiale nella cura di danni fisici interni alle donne vittime di violenze e stupro. Un lavoro per il quale Mukwege è stato insignito del Nobel per la Pace nel 2018.

CADIÈRE RACCONTA così al manifesto il suo primo incontro con Mukwege: «È venuto a trovarmi dieci anni fa presso il dipartimento di chirurgia dell’Université Libre de Bruxelles ed è rimasto colpito dalla mia tecnica per le operazioni chirurgiche, che non prevede l’apertura della cavità addominale ma solo piccole incisioni. Mukwege mi ha invitato a unirmi alla sua missione in Congo, dove ha già operato oltre 40 mila donne vittime della barbarie umana. Per me è stato naturale seguire questo tipo di missione assieme a lui».

La chirurgia mininvasiva consiste nell’operare all’interno della cavità addominale senza aprirla ampiamente. «Facciamo piccole incisioni di 5 millimetri, inseriamo il dispositivo e la fotocamera. Grazie a questo possiamo operare utilizzando lo schermo che ci permette di visualizzare perfettamente l’organo genitale molestato» spiega Cadière; senza aprire ampiamente la cavità addominale, il recupero del paziente è più rapido. Le persone possono lasciare l’ospedale dopo 2 giorni dall’operazione e non vi è alcun rischio di infezione o contaminazione.

MUKWEGE A CADIÈRE tra il 2011 e 2015 oltre a curare circa 260 bambine vittime di stupro hanno operato circa 200 donne e ragazze di età compresa tra 16 e 49 anni con la tecnica della laparoscopia. La morbilità (il rapporto tra numero di morti e numero di persone esposte al rischio di morire) è risultata molto bassa dopo le operazioni, ma Cadière sottolinea quanto sia importante «sostenere le vittime anche dal punto vista legale e psicologico per aiutarle a reintegrarsi in una società che le stigmatizza».

E sul futuro della sua missione avverte: «Non sono io quello che cambierà il destino del Congo, né il suo sviluppo. Continuerò a lavorare con il dottor Mukwege per insegnare ad altri medici questa tecnica per curare sempre più persone»; Poi aggiunge un pensiero sul futuro del Paese: «Sono molto preoccupato per l’impunità in Congo. La giustizia è l’unico modo per ottenere la pace».

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