Ferguson, Missouri, è stata messa a ferro e fuoco nei disordini proseguiti per tutta la notte dopo l’annuncio che l’agente Darren Wilson non è stato rinviato a giudizio per aver ucciso il diciottenne disarmato Michael Brown lo scorso agosto. Una decisione ampiamente prevista, come scontata è stata la rabbia esplosa nella martoriata località alla periferia di St. Louis. Annunciata anche la violenza della reazione della polizia che ha impiegato lacrimogeni e «proiettili non letali» per disperdere al folla.

La situazione è rapidamente e prevedibilmente degenerata e per molte ore gruppi di manifestanti hanno attaccato e incendiato dozzine di negozi, concessionari d’auto e uffici. Alcuni di questi sono stati saccheggiati dalla folla esasperata.

È finita, purtroppo, nell’unico modo possibile la vicenda che da mesi ha esacerbato le tensioni razziali nella località del Missouri e riaperto in tutti gli Stati uniti antiche ferite nei rapporti fra polizia e comunità afroamericane. «È peggio della peggiore notte cha abbiamo avuto da agosto in poi» ha affermato il capo della polizia mentre alle sue spalle le fiamme si levavano al cielo.

Le sommosse sono state conseguenza diretta della gestione del caso Brown caratterizzata fin dall’inizio dalla palese reticenza della polizia e sulla preponderante evidenza che indicava un’uccisione non giustificata, esacerbata dal pugno di ferro con cui sono state represse già allora le proteste di vicini e familiari.

Quelle proteste avevano indotto l’attorney general di Obama, Eric Holder, a inviare sul posto inquirenti dell’Fbi e ad aprire un’inchiesta federale che è ancora in corso. Le autorità locali incaricate di accertare eventuali responsabilità del poliziotto hanno invece affidato la valutazione a un gran giurì che ha impiegato oltre tre mesi per raggiungere la decisione, un processo che da subito era apparso pilotato per raggiungere l’obbiettivo prefissato.

Quando il procuratore di Ferguson Robert McCullough ha dato notizia ufficiale della decisione ha voluto farla precedere da una sussiegosa predica di quasi mezz’ora in cui ha ripetutamente ricordato che il ragazzo ucciso aveva «rubato una manciata di sigari», accusato i testimoni oculari di inattendibilità e incolpato stampa e social media per aver alzato il livello della tensione. La legalistica supponenza è servita solo a far infuriare ulteriormente la folla che con la famiglia del ragazzo aveva aspettato per otto ore l’annuncio della decisione.

Dietro ai sofismi è rimasta una semplice e amara verità: nelle azioni dell’agente Wilson non sono stati ravvisati gli estremi nemmeno per una sola ipotesi di reato da valutare poi in un processo. Wilson ha esploso due colpi di pistola dalla propria volante durante un’iniziale colluttazione con Brown ferendolo alla mano e in seguito lo ha rincorso mentre questi scappava verso casa facendo fuoco un’altra decina di volte colpendolo ripetutamente e finendolo quando questi si era infine fermato e rivolto verso di lui, con un totale di sei colpi al corpo e alla testa.

Nella valutazione del gran giurì in tutto questo comportamento non ci sono estremi sufficienti nemmeno per un processo per omicidio colposo. «La legge ammette gli omicidi nei casi di legittima difesa» ha volute precisare l’incendiario procuratore. O meglio, come ha commentato a caldo uno dei manifestanti all’esterno del tribunale: «Ci hanno detto chiaro e tondo che le nostre vite non valgono nemmeno un giorno di udienza in tribunale».

Mentre Ferguson bruciava il concetto è stato ribadito in decine di proteste nelle maggiori città d’America. Manifestanti si sono riuniti davanti alla casa Bianca, hanno marciato nella newyorkese Times Square, a Seattle, Oakland e Los Angeles, dove gruppi di dimostranti si sono riuniti nel quartiere nero di South Central, hanno momentaneamente bloccato il traffico su un’autostrada e hanno marciato lungo Martin Luther King boulevard fino alla centrale di polizia.

Molti di quelli che abbiamo visto erano giovani di tutti i colori,parecchi indossavano maschere di Guy Fawkes alla Anonymous e all’indirizzo dell’imponente schieramento si polizia che li sorvegliava hanno scandito lo slogan di «No Justice, no Peace».

Mentre le proteste sono proseguite in molte città per tutta la giornata di ieri, fra le macerie fumanti di Ferguson si tenta ora di tirare le somme di quella violenza così puntualmente biasimata come illogica e distruttiva dalla stessa comunità della vittima.

Un giudizio di ipocrita moralismo che non tiene mai conto di come, anche stavolta, la rivolta che alla fine ha consumato l’ennesimo ghetto americano è stato l’urlo gutturale di coloro a cui nei canali ufficiali era stata per l’ennesima volta tappata la bocca. Il grido di «bruciate tutto!» («Burn this bitch down!») scagliato nella notte dalla famiglia di Brown dopo il verdetto, è stato l’effetto di un accumulo disperante di ingiustizia iscritta nella memoria razziale e nella lunga storia di discriminazione sociale del paese.

Mentre l’America celebra il cinquantenario del movimento per i diritti civili, Ferguson ricorda a tutti gli Stati uniti quanta strada rimanga ancora da fare e come, tra tutti i problemi razziali, la violenza razzista della polizia rimanga un problema inaccettabilmente intrattabile. Ciò che che Ferguson ha ricordato per l’ennesima volta è come le uccisioni di afroamericani da parte della polizia siano un fatto quotidiano che si ripete centinaia di volte all’anno in dozzine di città americane. Esattamente quante nessuno è in grado di dirlo con precisione dato che ufficialmente le statistiche «non vengono mantenute». Ogni singolo dipartimento di polizia avrebbe l’obbligo teorico di renderli noti a chi ne facesse richiesta ma di fatto numeri affidabili sono praticamente irreperibili, nemmeno ad esempio nei database, altrimenti meticolosissimi dell’Fbi.

Le vittime appartengono ad ogni razza ma con una forte preponderanza di afroamericani che si stima costituiscano il 40% dei morti (soprattutto i giovani maschi). Nella stragrande maggioranza dei casi la polizia si autoassolve, conducendo prima una indagine simbolica che nella quasi totalità dei casi si risolve in una sentenza di «omicidio giustificato» per autodifesa (nell’insindacabile giudizio degli stessi agenti coinvolti).

Nelle comunità nere la brutalità degli agenti si riallaccia ad ingiustizie ataviche ed è storicamente alla base di numerose storiche rivolte e sollevamenti sociali, dal ragazzo il cui arresto ingiustificato provocò le rivolte di Watts nel 1965 al tassista nero picchiato a Newark prima delle sommosse del 1967 al ragazzo nero ucciso da un poliziotto in moto prima dei disordini di Overtown a Miami nell’89 al pestaggio di Rodney King causa delle rivolte di Los Angeles nel ’92.

Non a caso,nella conferenza stampa tenuta ieri dai legali della famiglia Brown, il reverendo Al Sharpton ha esortato tutti a «ricordare Rodney King». Come in quel caso, ha affermato il leader afroamericano, l’ingiustizia perpetrata contro Michael Brown ha dato nuova forza al movimento per l’uguaglianza di tutte le razze. E come in quel caso, ha fatto appello alle autorità federali affinché correggano l’iniquità del verdetto. «Il miglior memoriale per Michael Brown saranno nuove leggi che proteggano una volta per tutte i nostri ragazzi» ha concluso Sharpton. «Ieri ci hanno spezzato il cuore ma non la schiena».