Di Phil Spector (nome completo Harvey Phillip Spector) non si parlava più, quasi dimenticato. L’avverbio ci sta, perché poi i suoni, le storie, le vite, le paranoie, le eccentricità di Phil Spector, morto di Covid-19 a 81 anni, lo scorso 16 gennaio, rimbalzano da sempre qui e là nei saggi della critica musicale, nelle biografie degli artisti, nei documentari, nei film. Ma tutto, alla fine, rimanda sempre alle sue produzioni, a classici del pop e del rock come: Da Doo Ron Ron, Then He Kissed Me o He’s a Rebel delle Crystals, Be My Baby delle Ronettes, You’ve Lost that Lovin’ Feelin’ dei Righteous Brothers, la storica raccolta natalizia del 1963 A Christmas Gift for You from Phil Spector (anche noto come Phil Spector’s Christmas Album) in cui faceva rieseguire ai suoi artisti del tempo i classici natalizi, River Deep -Mountain High di Ike & Tina Turner e ancora Instant Karma (il primo singolo solista di John Lennon), Let it Be (l’ultimo album dei Beatles), All Things Must Pass (George Harrison), Plastic Ono Band e Imagine (Lennon e Yoko Ono), Death of a Ladies’ Man (l’album del 1977 di Leonard Cohen), End of the Century (l’album dei Ramones del 1980) ecc.

UNA LOTTA
Phil Spector, nelle parole di chi ci ha collaborato, era un pozzo di ingegno, aveva capito che la lotta con gli altoparlanti delle radio e dei jukebox anni Sessanta si poteva vincere con una tessitura sonora speciale che avrebbe ovviato alla (scarsa) qualità dei mezzi di diffusione e travolto gli ascoltatori delle frequenze in AM. Ecco allora una bomba di suono come nessun’altra produzione in circolazione allora ottenuta utilizzando stuoli di musicisti (la mitica compagine di turnisti The Wrecking Crew e il fidatissimo arrangiatore/direttore d’orchestra Jack Nitzsche), strumenti vari che suonavano all’unisono la stessa nota, stratificazioni costanti e reiterate di musica condite di eco e riverbero. Una vera e propria orchestra intenta a sviluppare piccole, gigantesche e opulente sinfonie pop («piccole sinfonie per i ragazzi», diceva il produttore).
Per dare vita a quello che passerà alla storia come lo Spector Sound o Wall of Sound, il muro del suono, il produttore utilizzava anche strumenti (violini, fiati, ottoni, percussioni) non associati, fino a quel momento, a un mercato pop giovanile. Tra le ragioni il fatto che – secondo Spector – se anche un pezzo non fosse stato di grande spessore in termini di struttura portante (musica e parole), quel suo tipo di approccio sonoro sarebbe stato il grimaldello per arrivare agli ascoltatori (e di conseguenza alle classifiche).
Tenendo bene a mente i dischi fortemente emotivi di gruppi vocali come i Platters o di artisti quali Roy Hamilton in cui i violini abbondavano, Spector voleva andare oltre e disvelare/affermare il ruolo di un nuovo soggetto artistico: il produttore discografico (già Leiber & Stoller avevano ben avviato la pratica). Molti al tempo lo imitarono, nessuno, però, eguagliò quello che gli riusciva meglio: ingigantire il volume in studio grazie alle partiture suonate dal vivo; la maggior parte dei suoi dischi fu, infatti, realizzata in un’unica seduta con i turnisti tutti insieme e tutti coinvolti contemporaneamente, approccio che lentamente andrà svanendo quando il multitraccia consentirà ai musicisti di registrarsi in proprio le rispettive parti.
Dagli anni ’80, Spector era più o meno sparito dalla circolazione, anche in virtù delle voci che circolavano sul suo conto; i suoi comportamenti e l’insana, letale passione per le armi gli avevano fatto piazza pulita intorno. E così fino al 2009 quando era stato definitivamente condannato a 19 anni di prigione – che scontava nel California Health Care Facility di Stockton, California – per l’omicidio (nel 2003), con arma da fuoco di Lana Clarkson. Ex attrice di B-Movie, il produttore l’aveva incontrata all’House of Blues, il music club di Hollywood, dove la ragazza lavorava la domenica. Era addetta come hostess alla VIP room del locale. Spector l’aveva invitata a casa e lì era successo il fattaccio. Un colpo di pistola, l’unico esploso, l’aveva colpita alla testa. La difesa dirà che Clarkson si era uccisa. Al secondo processo, però, Spector verrà condannato.
Lavorare con lui – ricordano tanti artisti – era un’odissea. E comunque arrivavi a Spector seguendo un percorso preciso – come fan, estimatore, amico – e te ne assumevi il rischio. Nel documentario End of The Century: The Story of The Ramones, il gruppo parla molto del rapporto con Phil che produrrà proprio quell’album, End of The Century. Le dichiarazioni sono illuminanti per arrivare al cuore della band e del produttore stesso. Intanto Spector apprezzava moltissimo il gruppo e già in occasione del loro album Rocket to Russia, si era offerto di produrre il gruppo (non avverrà). Del resto il suono del quartetto rimandava alle strutture melodiche di tanto girl sound – i gruppi femminili con cui Spector era divenuto famoso – e, in seguito, del surf: velocizzate e suonate con le chitarre distorte dell’hard rock. Inoltre Joey Ramone era cresciuto divorando i dischi prodotti da Spector e il sogno di lavorare con il suo idolo era lì, dietro l’angolo. Racconta nel documentario: «I lavori di Phil sono stati precursori del punk, tanto erano eversivi». Peccato che non tutti la pensavano così, soprattutto Johnny, il chitarrista, per il quale da 15 anni Spector non produceva nulla e sul quale alla fine non si sarebbe potuto contare. Inoltre il legame era soprattutto con Joey di cui Spector apprezzava moltissimo la voce. Quindi scontro di personalità con il resto del gruppo, la richiesta a Johnny Ramone di suonare per 160 volte lo stesso intro del pezzo Rock ‘n’ Roll High School, le imprecazioni, le urla, la maniacale lentezza in studio, lo sfoggio costante delle pistole con cui minacciava chi non avesse fatto quanto diceva e chi si fosse allontanato. Nello specifico Marky Ramone smentirà il particolare, confermato, però, da Johnny e dal bassista Dee Dee. Monte Melnick, tour manager della band, rincarerà la dose dichiarando nel documentario che Spector li aveva invitati a casa sua costringendoli a vedere tutti film horror; poi aveva tirato fuori una pistola con gli ospiti che erano corsi a nascondersi dietro il divano. Solo Joey – che puntava a un suono più pop – rimarrà soddisfatto di quella produzione, gli altri contesteranno il risultato finale (la resa della batteria su tutto). Capiranno anche che se quella volta, e con lui, non avevano sbancato le classifiche, avrebbero dovuto continuare a fare i Ramones che erano sempre stati.

NEL BRONX
Phil Spector era nato nel Bronx e a otto anni aveva perso il padre, suicida. La mamma aveva trasferito la famiglia in California dove Spector avrebbe frequentato il liceo (il Fairfax High, lo stesso dei noti autori Jerry Leiber e Mike Stoller con cui, a 19 anni, collaborerà trasferendosi a New York) e il college (il City di Los Angeles). A Hollywood frequenterà i Gold Star Studios, noti per la loro camera d’eco, che diverranno il quartiere generale di tutte le sue produzioni di maggior successo. Questo fino a metà anni ’60, quando il suono secco di Beatles, Rolling Stones e tutta la British Invasion toglierà incidenza e contemporaneità a Spector e alle sue opulenze sonore. Sempre più terreno perderà, inoltre, il fascino delle registrazioni in mono – così amate da Spector – sopravanzate dall’affermazione della stereofonia. Ma tant’è, i gruppi che lo stavano mandando in pensione alla fine lo cercavano comunque. Non a caso i Rolling Stones lo invitavano in studio e i Beatles gli chiesero di produrre Let It Be. Che, però, non troverà il favore di Paul McCartney che lamentava un uso eccessivo – soprattutto in pezzi come Let It Be e The Long and Winding Road – di orchestrazioni e cori (nel secondo pezzo: 18 violini, una pioggia di altri strumenti a corda e fiato, 14 voci femminili). Lo stesso George Martin – che aveva prodotto la prima incarnazione dell’album, inizialmente intitolato Get back e che era stato informato dalla casa discografica che non sarebbe stato menzionato come produttore – dirà, molto ironicamente, che sarebbe stato corretto precisare in copertina: «produced by George Martin, over-produced by Phil Spector».
A Harrison e a Lennon, però, le tecniche di Spector non dispiacevano e i due torneranno a collaborare con il produttore. Nonostante le pistole sfoderate anche con Lennon durante le registrazioni del suo album Rock ‘n’ Roll. E quello era il vero abisso di Phil: armi, armi, tante armi. Sempre, ovunque. Come in occasione delle registrazioni di Death of a Ladies’ Man, l’album di Leonard Cohen, con Spector che puntando la pistola al petto del musicista dirà, «Ti amo, Leonard», e questi, «Speriamo, Phil». Epocale. Le sue follie e paranoie però non offuscheranno mai il suo talento in studio; influenzeranno le produzioni di Brian Wilson dei Beach Boys e verranno esaltate da Elton John a Bruce Springsteen alla stessa Ronnie Spector, moglie del produttore, splendida vocalist delle Ronettes. Costretta in un rapporto di coppia iperviolento, Ronnie ha twittato all’indomani della notizia della morte di Spector: «È stato un marito schifoso ma un grande produttore, era capace di sentirsi vivo e relazionarsi agli altri solo in uno studio di registrazione». L’ultima sua produzione risale al 2010, un album della moglie del tempo, Rachelle, realizzato mentre era fuori per cauzione tra i due processi, poi nel 2013 arriverà Phil Spector, film per la tv in cui il produttore è interpretato da Al Pacino. Poi di nuovo il silenzio.