Un numero non è mai solo un numero. È il più elementare e astratto degli enti se lo si considera da un punto di vista matematico. Ma, non appena si esuli dalla purezza di quella scienza, ecco che il numero rinvierà a qualcos’altro. Non preceduto da alcun numero naturale e privo di qualsiasi unità, lo zero evoca l’abisso, l’assenza di fondamento. È allegoria del nulla. Magari di un nulla da «dopo-bomba»: Ground Zero, appunto. Ma un nulla con il quale Novalis, in una lettera a Friedrich Schlegel, faceva coincidere Dio, definito «zero elevato a zero».
Due è il numero della scissione e della nostalgia di un’unità perduta. In tre regioni, in ognuna delle quali è allocata una funzione specifica, si suddivide la psiche in Platone, sul modello della tripartizione della polis in classi. E tre sono le istanze psichiche nella topica freudiana. Poi ci sono la Trinità delle persone di Dio, la Trimurti dell’induismo, le triadi di Proclo e quella hegeliana dello spirito oggettivo. Sei, per convenzione, i gradi di separazione tra due individui. Quando i numeri di maglia indicavano la posizione sul campo da calcio, quattro era un numero da mediano. Dieci la cifra dei trequartisti, dei fuoriclasse anarchici. Il sette, che De Gregori faceva rimare con «spalle strette», lo si dava all’ala destra, di cui Meroni personificherà per la durata di un lampo l’idea platonica. Dodici gli Apostoli e altrettanti gli «Angry Men» de La parola ai giurati di Sidney Lumet. E le dodici sono l’ora senz’ombra, l’ora dei demoni meridiani, potenzialmente fatale. Il diciassettesimo giorno ebbe inizio il Diluvio: forse viene da qui la reputazione di numero infausto. Mille è il numero di chi millanta. Mille e tre nella sola Ispagna le conquiste di Don Giovanni messe a verbale da Leporello. Ventimila le leghe sotto i mari di Verne e ventiquattromila i baci di Celentano…
Si potrebbe continuare all’infinito. Ogni numero è un racconto e contiene moltitudini. Da questo assunto prende avvio la nuova collana del Mulino, «Storie di numeri», diretta da Umberto Bottazzini. A inaugurarla è Uno Il battito invisibile, di Giulio Busi, filologo, ebraista e studioso del Rinascimento. La serie comincia dunque dal primo numero naturale. Da quell’Uno ineffabile del quale non può farsi esperienza e la cui idea presuppone un «salto di qualità ontologica», scrive Busi. Uno scarto al di là del molteplice – e dell’infinitamente divisibile – che cade sotto i nostri sensi, per i quali l’Uno non esiste. Se pure fosse esistito, lo avremmo comunque perduto. Anzi: l’Uno può dirsi la cosa smarrita, la res amissa, per eccellenza. Non a caso, il libro si apre con il racconto in prima persona di un sogno fatto in Inghilterra e ispirato da un quadro di Georges de la Tour, I giocatori di dadi. Nel dipinto, i tre dadi lanciati sul tavolo si sono tutti fermati sull’Uno. Nel sogno, un lancio troppo energico sbalza i dadi sul pavimento. I giocatori ne recuperano solo due. Il terzo è perduto. È l’Uno che manca all’appello. Invisibile, dunque desiderabile.
Convinto del «valore euristico», niente affatto esornativo, del narrare, Busi conduce undici «esperimenti» di approssimazione all’Uno inconoscibile. Sono brevi capitoli, la cui chiave sta forse in due concetti di Plotino: «semplificazione» (haplosis) ed «estasi» (ekstasis). Semplificazione significa che la storia dell’Uno nella filosofia occidentale comincia con Senofane: è lui, per Aristotele, il primo a ridurre il molteplice all’Uno, inteso come antidoto contro l’«ipertrofia mitologica» della religione tradizionale, col suo pantheon affollato e frenetico. L’Uno può essere pensato solo facendo astrazione da tutte le forme, e quest’astrazione equivale a un taglio, a un gesto di «ribellione» nei confronti degli antichi dèi. Ma, proprio perché informe, l’Uno è la potenza, la dynamis – dirà Plotino – di tutte le forme. E proprio perché tutti i suoi attributi sono negativi e nulla lo definisce, l’Uno è il principio di tutte le cose, avvolte nella sua aura, ricomprese nel suo essere «pura spazialità», ricettacolo di tutti i luoghi possibili, come il silenzio lo è di tutti i suoni. Lo spettacolo, il «teatro del molteplice» è dunque riconducibile all’Uno, che ne è l’«impresario», l’allestitore dissimulato. Detto altrimenti: non c’è via per accedere all’Uno che non passi per il molteplice. È evidente nelle comunità religiose, allorché la liturgia prescrive un numero minimo di oranti perché i molti si fondano in uno.
Estasi, si diceva. L’Uno di Giulio Busi è soprattutto un concetto «fuor-viante». All’Uno ci si approssima per illuminazioni, per squarci subitanei del velo che lo ricopre. Illuminazioni che presuppongono un incidente, un esodo fuori di sé e del mondo, una deviazione dal corso ordinario del tempo. C’è bisogno di un contrattempo, perché l’Uno si manifesti e lo s’intuisca. E c’è bisogno di abbandonare la strada maestra. Di trasgredire. De-lirare, nel senso etimologico dell’uscita dal solco. È il delirio di Mosè, che spinge le greggi fino al limite estremo del deserto. Qui, sul monte Oreb, gli si rivela il roveto – l’Uno – che brucia senza consumarsi.
Tutto il libro di Busi è come un commento a quel primo delirio. Erratico al pari dell’oggetto (e dell’autore), è anche un libro di viaggio. Tra i grandi testi della tradizione ebraica – Leonard Cohen incluso – e dell’epica indiana, della filosofia antica e del platonismo fiorentino, tra mistica e poesia d’amore (quell’eros che in Platone è desiderio di ripristinare l’Uno infranto). Ma anche tra i luoghi più disparati della Terra: da Maiorca al Kerala, da Madras a Venezia. Ed è nel corso di una sua Wanderung che Busi fa l’incontro più perturbante: quando, ripetendo un’esperienza di Rilke a Duino, abbraccia un albero e sente il proprio battito – il battito del titolo – restituito dalla corteccia. È uno, sostanza unica, con la pianta. E la pianta agisce come mediatrice dell’Uno. Materialismo, misticismo, panteismo? Niente traduce quell’impressione. Si può solo provare a raccontarla.