I vecchi ragazzi, come direbbe il Bloch di Dylan Dog, gli Old Boy, nati tra la fine dei meravigliosi anni Settanta e i rampanti Ottanta, sono cresciuti al ritmo di canzoni potenti, orecchiabili, quelle dei cartoni animati. Così tra un «Mai, mai scorderai l’attimo/la terra che tremò/l’aria s’incendiò e poi silenzio» che prediceva l’arrivo di Ken il guerriero in un fumoso futuro postnucleare o un «La faccia nel vento/il ferro nel braccio/ti guardi d’intorno con gli occhi di ghiaccio/non senti dolore con lo sguardo nel sole (Sam, Sam, Sam!)» che ci trasportava in un western giapponese dal sapore di Sergio Corbucci e del suo Django, gli uomini di domani sognavano, crescevano e imparavano ad amare la musica, anche attraverso quelle sigle che i genitori o i ragazzi più grandi disprezzavano come «roba da bambini». Ma da quando toccare il punto vitale di un uomo e farlo esplodere dopo 10 secondi è una cosa da poppanti? Questo i ragazzi di quegli anni lo sapevano, soprattutto alla luce di visioni corsare in televisioni private, non nei canali ufficiali alla Bim Bum Bam, ma piuttosto attraverso scalcinate tv come Telereporter e il contenitore Jo Jo con i suoi cartoni violenti ma gagliardi come L’Uomo Tigre. Da una parte il mondo dei bambini pulitini e perfettini cantava sulle note di Cristina D’Avena, dall’altra i ribelli, i Grease degli anni Settanta/Ottanta si esaltavano con Nico Fidenco o I Cavalieri del Re, vincendo su tutta la linea con testi più maturi alla mercé di immagini (pre)potenti di robot salvatori, pescatori abili e ragazze da salvare come la Lana di Conan il ragazzo del futuro.
In questo periodo però sempre sulle reti private cominciarono a prendere piede degli strani prodotti, unici e senza dubbio estranei alla nostra educazione di giovani spettatori, ossia dei cartoni animati non disegnati, con veri attori giapponesi, quelli che avremmo chiamato negli anni live action e che in Giappone battezzavano come Tokusatsu. Di quel mondo esotico che avrebbe generato il fenomeno dei Power Rangers, arrivarono pochi esemplari ma il loro ricordo avrebbe lasciato un segno, al pari di una bomba atomica, in tutti gli appassionati.

IL SUPEREROE FIAMMEGGIANTE
Capire quale fu il primo di questi cartoni animati in carne e ossa è arduo anche perché le tv private nascevano e morivano come funghi, con programmazioni selvagge che a volte neppure erano presenti sulle varie guide tv dell’epoca. È certo però che il più famoso, il più iconico rappresentante di questa legione di gargantueschi eroi dalle mossettine sceniche è senza dubbio Megaloman, tutina rossa argentata e capelli bianchi lunghissimi. È il 1979 quando questo personaggio esordisce in patria su Fuji TV con 31 episodi di mezz’ora, mentre da noi in Italia farà capolino qualche anno dopo. I Tokusatsu, comunemente abbreviati con il termine Toku, erano nati dopo la seconda guerra mondiale per aggirare il divieto, dato dalle forze statunitensi, di girare film di guerra in Giappone. Nella terra del Sol Levante infatti la tecnologia negli effetti speciali aveva fatto passi da gigante tanto da temere l’avvento di pellicole propagandiste troppo realistiche. La fantascienza quindi per i registi e i creativi giapponesi era un ottimo modo per camuffare messaggi impegnati in una dimensione leggera e spettacolare. Si pensi a Godzilla (1954) di Ishiro Honda, capolavoro del Kaiju Eiga (cinema dei mostri), nel quale un dinosauro atomico è l’escamotage per lanciare un atto di denuncia contro il pericolo della guerra nucleare, dove il paesaggio devastato di Tokyo non può che richiamare dolorosamente gli scenari violentati di Hiroshima e Nagasaki.
Eiji Tsuburaya, detto il «dio dei Tokusatsu», lavorò come effettista appunto a Godzilla e a molte pellicole sulla scia di quello, prima di dedicarsi alla realizzazione di Urutora Q (1965), il capostipite delle serie tv a base di mostri giganti e supereroi. Proprio da questo telefilm, nato come risposta giapponese al clamore oltreoceano di opere come Ai confini della realtà o Oltre i limiti, sarebbero germogliati i semi del primo vero prodotto Tokusatsu supereroistico, Urutoraman: Kûsô tokusatsu shirîzu (1966), da noi Ultraman. In Italia questo serial arriva a inizio anni Ottanta ma ne vengono trasmessi solo 26 episodi su 39, senza un vero perché.
Ultraman è il primo, un vero simbolo per la cultura pop giapponese, ma da noi non riuscirà mai a conquistare la stessa fama del fratello più giovane, Megaloman. Urutoraman: Kûsô tokusatsu shirîzu, dai colori sgargianti a differenza del modello Urutora Q, in bianco e nero, a suo vantaggio non può neppure vantare una sigla accattivante: presenta un motivetto infantile cantato con spiccato accento inglese, dalle influenze psichedeliche, che conta una sola parola, il nome del supereroe, ripetuto all’infinito, un po’ come per il Batman di Adam West. Ultraman è alto 40 metri, capace di volare velocissimo, ma, caso unico nel genere, solo per un periodo limitato di tempo (3 minuti). Sul petto dell’eroe infatti è presente un timer colorato che comincia a lampeggiare avvisandolo che la sua energia è in fase di esaurimento: se dovesse spegnersi, l’eroe cesserebbe di vivere. Telefilm divertente con un eroe dalla faccia da insettoide alle presa con nemici mostruosi un po’ ebeti, diventa presto una serie di culto per i giovani giapponesi, generando emuli d’altrettanto grande fama.
Megaloman, come detto, arriva ben 13 anni dopo, nel 1979, ed è il prodotto, almeno per il pubblico italiano, di maggior culto. Stavolta la sigla è di quelle che lasciano il segno: scritta da Carlo Rossi, su musica e arrangiamento di Flavio Carraresi e Flavio Rotunno, viene magnificamente cantata dai Megalonsingers, pseudonimo del gruppo Superobots. Il gruppo non ha mai avuto una formazione fissa, ma ha visto l’avvicendarsi di diversi musicisti di grande spessore, Douglas Meakin (voce e chitarre), Dave Sumner (chitarre), Mike Fraser (piano), Mick Brill (basso) e Marvin Johnson (batteria). Al ritmo di «Me-me-ga-ga-lo-lo-man, Megaloman Megaloman Me-me-ga-ga-lo-lo-man, Megaloman. Il più famoso degli eroi, Super Megaloman; sai trasformarti in gigante, con un cuore bambino, hai nel corpo rovente forse un’anima blu, blu, blu» o ancora «Sei l’eroe di tutti noi, grande come l’immensità, forte come la verità Me-me-ga-ga-lo-lo-man, Megaloman. Lingua di fuoco tagliente con il getto di sole, meteorite esplodente» e tutte frasi altisonanti che accendevano l’hype dei ragazzini incollati alla tv mentre la musica passava dal sincopato elettronico al pop con tendenze rockeggianti. Oltretutto Megaloman (pronunciato come si legge), tra tutti i supereroi giapponesi della tv, aveva delle mosse davvero uniche come la carismatica «Fiamma di Megalopoli», scaturita dai capelli del nostro eroe dalla zazzera bianca e scagliata con una rotazione della testa, in grado di infliggere il colpo di grazia all’avversario.
La trama del serial era tra le più appassionanti e pulp del periodo con un protagonista e un cattivo (Capitan Delitto) che si rivelano gemelli, anticipando il rapporto parentale tra Luke e il malvagio Dart Fener, sua nemesi, ne L’impero colpisce ancora (1980) di Irvin Kershner. Megaloman si differenziava dai suoi antenati, Ultraman compreso, perché viveva raramente la sindrome da picchiaduro, ossia nemici che aspettavano il loro turno in fila, durante i combattimenti, in una sorta di bon ton da mazzata che avrebbe avuto il suo apice nei film di arti marziali di Jean Claude Van Damme. Qui invece tutti i cattivoni, salvo rari casi, si lanciavano in massa contro il supereroe dalla zazzera importante e tutti di conseguenza erano battuti con il mai dimenticato «Uragano di fuoco» anzi «Uuuuuraganooooo di fuocooo» e via di devastazione. A comporre la colonna sonora, mitica e miticizzata, c’erano, come detto, i Superobots, tra i migliori esecutori di sigle di cartoni animati. Grazie alle loro sonorità abbiamo amato cult come Il grande Mazinger, che vendette oltre seicentomila copie e si posizionò alla ventiseiesima posizione dei singoli più venduti del 1980, Jeeg Robot, Ken Falco, Guerre fra galassie, Gran Prix e il campionissimo, Daltanious, Supercar Gattiger, Blue Noah, Trider G7, Gordian, Ufo Diapolon, Koseidon, Starzinger, Babil Junior, Superobot 28 e persino la commovente Candy Candy, forte delle sue cinquecentomila copie piazzate. Canzoni con testi semplici ma dalle sonorità sperimentali, in un mercato, quello dei cartoni animati, che aveva da contrasto solo le infantili sonorità di Cristina D’Avena e Alessandra Valeri Manera con i vari puffi alti «solo due mele o poco più» quando Megaloman era un colosso di 100 metri e pesava ben 8000 tonnellate. Come strillava la frase di lancio di Godzilla del 1998 «Le dimensioni contano».

GALASSIE E DINOSAURI
Altro meraviglioso esponente del genere è I-Zenborg (ovvero Ai-Zenborg e la Grande guerra dei dinosauri), 39 episodi da circa 25 minuti ognuno, trasmessa in Giappone tra il 1977 e il 1978. Arrivò da noi sulle reti private con una potentissima sigla sempre dei Superobots/Megalonsingers che iniziava con «Vinciamo nel segno di I Zenborg/polsi incrociati si vincerà/Guerra ai mostri senza pietà/fino in fondo con I Zenborg/Ecco lassù la supernave sta lottando già/coi mostri teleguidati ogni città paralizzata spera solo/nel segno vincente di I Zenborg». Stavolta il genere era il rock progressive con dei giri di basso che ancora oggi danno filo da torcere a canzoni ben più mature.
Stavolta la minaccia arriva, come in Jeeg Robot, dal sottosuolo, con il crudele impero dei dinosauri a voler distruggere la razza umana. Eroi dell’opera sono i fratelli Ai e Zen che, feriti a morte dai malvagi rettili, verranno tramutati dal Professor Torii in cyborg. Viene così creata la Squadra D con il compito di proteggere il pianeta Terra. Quando le normali armi sono inefficaci contro i giganteschi mostri dell’impero, i due fratelli cyborg, incrociando le loro braccia, sono in grado di sprigionare un’energia incredibile, dando così vita a Ai-Zenborg, un jet supersonico dotato di lame rotanti e di una gigantesca trivella. Particolarità di I-Zenborg è di essere un’opera ibrida che mischia una parte a cartoni animati (la più corposa) con combattimenti dal vivo tra uomini in costumi da mostri e ovviamente supereroi giganti, in questo caso l’ennesima fusione dei due fratelli semiumani, Super Ai-Zen, un enorme guerriero.
I dinosauri rappresentarono un grande problema per la produzione del telefilm perché i bambini li amavano e la paura di allontanare una fetta di pubblico era molto verosimile. Quindi si decise di modificare, nel giro di pochi episodi, il tono cupo dello show con i giganteschi rettili che passano dall’essere una tangibile minaccia a pupazzoni che ballano in puerili gag comiche per divertire il giovane pubblico. I-Zenborg però era il secondo progetto ibrido della Tsuburaya, la stessa casa di Ultraman: nel 1976 era infatti stato presentato in Giappone con successo Born Free-l risveglio dei dinosauri, trasmessa in Italia su Rete 4 nel 1984 , nella quale però i lucertoloni dovevano essere protetti dagli esseri umani.
Terminata I-Zenborg, la trilogia si concluse nel biennio ’78-’79 con un altro show, Koseidon (52 puntate divise in due stagioni), che però era un Tokusatsu puro, privo di parti animate. Nel luglio del 1979, la Tsuburaya tornerà però all’animazione ibrida con Tansor 5-Avventura nella scienza, da noi su Canale 5 nel 1982, serie che lascia da parte i dinosauri per concentrarsi sui viaggi nel tempo.
Altra opera di un certo pregio è Guerre fra Galassie, uscito in Giappone tra il 1978 e il 1979, come seguito tv di un lungometraggio di buon successo (Uchu kara no messeji). La serie, composta da una sola stagione per un totale di 27 episodi, in Italia è stata trasmessa sulle reti locali negli anni Ottanta. Forza di questo telefilm, debitore a Star Wars di George Lucas, è il largo utilizzo di modellini per le spettacolari battaglie spaziali che si inframmezzano agli scontri a colpi di arti marziali. In Guerra fra galassie fa capolino una sorta di scimmia umanoide che richiama sia il famoso Chewbecca che la meno celebre serie tv, da noi mai giunta, della Tsuburaya Saru No Gundan (1974), risposta nipponica a Il pianeta delle scimmie. Le musiche erano opera di Shunsuke Kikuchi (Babil Junior, Cybernella, Kyashan, il ragazzo androide, Space Robot, Hurricane Polymar, Atlas Ufo Robot, Gaiking, il robot guerriero, Danguard, Starzinger, Dr. Slump e Arale, Dragonball, Kamen Rider e i film dedicati a Gamera), mentre in Italia la sigla si affidava ai «soliti» Superobots con un pezzo strumentale composto da Douglas Meakin, Dave Sumner e Giancarlo Giomarelli su arrangiamento di Olimpio Petrossi.

SARANNO FAMOSI?
Meno celebri in Italia, ma comunque arrivate da noi, sono Denziman e Goggle Five, due serie che fanno parte del filone Super sentai (ovvero Super squadre da combattimento), un sottogenere giapponese di serie televisive e cinematografiche Tokusatsu in cui squadre multicolori lottano per la pace mondiale contro forze extraterrestri o demoniache. Per essere più chiari possibili: i progenitori dei Power Rangers. Le sigle sono rimaste le stesse della versione originale: Aah, Denshi Sentai Denziman e Denziman ni Makasero! per il primo, Dai sentai Gôguru Faibu (Great Squadron Goggle V) e Sutoppu Za Batoru (Stop the Battle), per il secondo. Nulla di eclatante, un po’ come le due serie abbastanza monotone e con storie puerili e ripetitive, imperdibili soltanto perché si tratta delle sole appartenenti al filone Super Sentai arrivate in versione non occidentalizzata in Italia. Goggle Five fu trasmessa da Italia 7 nei tardi anni Novanta per poi sparire senza repliche.
Altro oggetto strano è Ultralion del 1972, ambientato in Giappone durante l’epoca Sengoku (1467-1603). Stavolta il nostro eroe è il giovane ninja Shishimaru che, grazie a una spada magica, si trasforma in un guerriero dalla faccia da leone accompagnato da un fidato destriero alato. Curioso serial che vanta una colonna sonora orecchiabile del gruppo Il Mago, la Fata e la Zucca Bacata, celati sotto lo pseudonimo degli Happy Gang, celebri soprattutto per le hit di Carletto, il principe dei mostri e Chobin, il principe stellare. La sigla recita «Nero mantello nel vento/occhi d’argento, cavallo bianco è/Ultralion la libertà/Magica spada non sbaglia/lotta coi mostri in quattro li taglia/và Ultralion senza pietà/Chi mai sarà?/Sotto la maschera chi c’è?/Chi mai sarà?/Un impostore oppure un re?/Nessuno sa da quale parte arriverà/Arriverà, e farà piazza pulita/terra bruciata battono tutti in ritirata/se c’è Ultralion». Semplice, debitrice nel testo alla classica ballata di Zorro scritta da Norman Foster e George Bruns, ma davvero molto orecchiabile.
Cugino di Ultralion è Tiger Man, in patria conosciuto come Tiger Seven, trasmesso a partire dal 1981 da Antenna 3. Stavolta i nemici vengono dall’antica civiltà di Mu, e il nostro nuovo eroe si chiama Go, capace, grazie ad un medaglione egizio, di trasformasi in Tiger Seven, un guerriero con la maschera di tigre dotato di sette poteri: super forza, super agilità, super udito, super vista, super intelligenza e gli artigli e le zanne di una tigre. La sigla è rimasta la stessa giapponese ma il telefilm, girato nel 1973, è molto divertente, veloce e con combattimenti variegati.
In Italia arrivarono altri Tokusatsu, ma nessuno davvero memorabile né per le storie né per le musiche. Tra questi si può citare X-Bomber (1980), una serie con marionette, Machineman (1984), imitazione di Superman dal creatore di Cyborg 009, Capitan Ultra (1967), serie pulp sci-fi ispirata alle gesta di Capitan Futuro, Zabogar-l’uomo elettrico (1974), storia di un agente segreto che combatte contro i soliti dinosauri malvagi in versione robot, Spectreman (1971), nel quale il cattivo è un dottore dalle fattezze di una scimmia e Jumborg Ace (1973), imitazione blanda di Ultraman.
Da noi purtroppo non arrivò mai il divertente Spider-Man (1978), nel quale l’eroe Marvel pilota un robot gigante chiamato Leopardon.
Di tutti questi prodotti, miserabili e fantasiosi, unici e derivati, non ci rimane altro che il ricordo, «un pugnel di morte foglie», come nella lirica Autunno di Angiolo Silvio Novaro, capaci di accendere in noi ricordi vivi di musica e immagini e, per qualche istante, farci tornare bambini in quell’epoca meravigliosa dove i robot volavano per davvero.