Black Fire, fuoco nero. È il titolo di una bellissima, e davvero opportuna, raccolta di saggi di autrici e autori, attivisti africano-americani a cura di Anna Curcio (DeriveApprodi, pp. 120, euro 10, collana «Input»). Uscito sulla scia del fuoco estivo nero, sprigionato in risposta all’omicidio di George Floyd dalle imponenti manifestazioni antirazziste globali dei movimenti connessi a Black Lives Matter, il testo è composto da una serie di frammenti di scritti, non fra i più noti, di diversi «classici» del pensiero nero, nonché di analisi più recenti sulle cause, condizioni e composizione sociale delle lotte più significative contro la violenza razziale strutturale negli Stati Uniti. L’ultima parte, infatti, si propone come un interessante cantiere di riflessioni sui molteplici spazi di soggettivazione aperti sull’attuale congiuntura politica, sia da Blm sia dalla conflittualità più ampia che ha infiammato l’estate americana.

«BLACK FIRE», fuoco nero, dunque. Un buon primo approccio al testo suggerisce di non prendere il titolo come una semplice metafora o frase a affetto, ma come una sorta di significante ontologico, sempre latente e in attesa di nuove e impreviste combustioni, all’interno della magmatica tradizione radicale nera. Si tratta di un’espressione ricorrente nella storia dei neri, diffusa anche nello slang dei ghetti, pur se con significati diversi benché connessi, e tuttavia niente affatto gratuita. Black Fire è il titolo di un album del 1961 del pianista e compositore nero di free-jazz Andrew Hill. Non un album qualunque, ma una delle espressioni musicali più influenti all’interno di quell’avanguardia che avrebbe fatto del free-jazz, non solo un movimento d’arte, ma anche la principale cassa di risonanza del movimento di lotta per i diritti dei neri negli anni Sessanta. Hill definiva il suo jazz come parte di quel rifiuto nero dell’educazione musicale «eurocentrica» (bianca) iniziato con Charlie Parker e Miles Davis, con cui aveva suonato da adolescente. Il Black Fire di Hill esprimeva in musica l’alba di una nuova soggettivazione nera, il fermento di una rivoluzione razziale-culturale destinata ad avere un effetto travolgente negli anni a venire.
Nel 1968 Black Fire rispunta invece come titolo di un’antologia di testi politici, poetici e artistici di alcune delle figure più emblematiche del movimento rivoluzionario nero, a cura di Amiri Baraka (LeRoy Jones, già autore nel 1963 di Blues People: Negro People in White America) e Larry Neal. Le prime righe dell’introduzione, distillate, nel suo consueto stile politico-poetico da Baraka stesso, sono sintomatiche dello spirito del testo, apparso nel pieno delle rivolte dei ghetti in quasi ogni metropoli americana.
Qualche decennio dopo sarà Nelson Peery a incarnare in questo significante la sua dirompente autobiografia: Black Fire. The Making of an American Revolutionary (1994). Ancora una volta, non un autore o un racconto qualunque. Black Fire riassume qui la presa di coscienza militante di una delle figure chiave del movimento rivoluzionario nero dei ‘60, protagonista di uno dei tentativi più discussi (The Negro National Colonial Question, 1972) di tradurre la questione africano-americana entro le concezioni sul diritto all’autodeterminazione dei popoli coloniali promosse dal primo marxismo-leninismo. Numerosi gli altri esempi possibili: negli anni settanta ci fu anche una notissima casa discografica nera indipendente, e assai legata agli sviluppi culturali in chiave afrocentrica del movimento del Black Power, chiamata appunto Black Fire Records.

LO STESSO PENSIERO NERO ci autorizza a dare un’ulteriore piega al discorso: nella tradizione popolare nera, l’espressione black fire, rinviando (pur se in modo indiretto) alla sua ascendenza religiosa – di «fuoco nero» si parla nella Torah e anche nella tradizione evangelica e pentecostale – sembra richiamare a qualcosa di simile a ciò che Benjamin intendeva per violenza divina e redentrice della classe operaia. Ci pare un piano d’immanenza attivo anche nella testura stessa della raccolta di Anna Curcio.
Black Fire non sta dunque per una semplice raccolta di voci nere antagoniste, da opporre come mera enunciazione di principio a visioni più moderate o filo-istituzionali dell’attuale conflittualità razziale, ma ha come primo obiettivo cercare di riconsegnare le rivolte nere di questa estate alla loro «profondità storica», ovvero ricollocarle entro una tradizione davvero secolare di soggettivazioni politiche radicali da parte degli africano-americani. Non tanto per evocare una sterile linearità delle lotte, bensì per offrire una contro-narrazione a quel discorso dominante vittimista che, soprattutto alle nostre latitudini, tende a leggere tanto il movimento di Blm quanto le rivolte dell’estate – riprendendo le parole stesse dell’introduzione – «come un mero epifenomeno, come mera reazione alla morte di un afroamericano per mano di un poliziotto bianco».
Black Fire si presenta così come un’ottima guida non solo al farsi stesso della tradizione radicale nera, come rovescio di quello che Cedric Robinson ha chiamato il «capitalismo razziale», ma soprattutto alla costruzione africano-americana della «razza», non tanto come un campo di battaglia inerente soltanto alla sfera semiotico-ideologica delle rappresentazioni, quanto come terreno materiale e quotidiano di soggettivazione politica. Non è difficile vedere già qui una frattura rispetto alle modalità dominanti nei nostri contesti di trattare la questione razza-razzismo. Strategiche rispetto a questa prima chiave di lettura, le pagine scelte di uno dei lavori più importanti sulla «soggettivazione nera intesa come prodotto», storico e microfisico si potrebbe dire, «della comunità e della cultura popolare nera», ci riferiamo all’oramai classico Lo schiavo americano dal tramonto all’alba (1973), di George Philip Rawick.

E TUTTAVIA attraverso una scelta tanto mirata quanto originale di altre delle espressioni storiche più significative del «fuoco nero» – da C.L.R James a Sojourner Truth, da Malcolm X, Huey P. Newton e Stokely Carmichael ad Angela Davis e Assata Shakur – la raccolta si prefigge un secondo e importante obiettivo: l’approccio alla tradizione radicale nera non come semplice resistenza, ma come sperimentazione storica di un contropotere. È soprattutto in questo modo che Black Fire parla a noi oggi, mostrandoci in che modo la lotta al razzismo può diventare il centro di un movimento di ricomposizione politica di classe più ampio e trasversale; qualcosa di ben esemplificato dal ruolo giocato da Blm – pur nella sua eterogeneità politica – nelle lotte contro Trump e contro le devastazioni (sociali e razziali) prodotte dal Covid.

DA SEGNALARE anche alcuni gioiellini presenti nella raccolta, come uno scritto del 1965 poco noto di Eldridge Cleaver, un personaggio non certo privo di ambivalenze, o il Programma politico generale di una delle organizzazioni politiche nere più radicali degli anni sessanta, la League of Revolutionary Black Workers, ma soprattutto vi è qui da sottolineare la presenza di uno dei primi saggi tradotti di Robinson, figura chiave del marxismo nero: Razza, capitalismo e anti-democrazia (1972). Scritto in occasione delle insurrezioni seguite al pestaggio di Rodney King nel 1992, Robinson presenta un’analisi davvero attuale e raffinata, e assai poco diffusa nei nostri contesti, del rapporto tra razza, razzismo e dominio di classe, non solo all’interno del capitalismo razziale americano in quanto tale, ma soprattutto nel suo passaggio a una razionalità di governo e di sfruttamento di tipo neoliberale. Robinson mette in luce alcune dinamiche dell’evento, soffermandosi in particolare sulla sua costruzione come «schermo razziale» di tendenze e contraddizioni più profonde, che non è difficile ritrovare alle nostre latitudini, e quindi attorno a eventi (razzialmente strutturati e costruiti) del tutto diversi. Si tratta di un’ottima occasione per confrontarsi con l’autore di alcuni dei concetti più seminali negli attuali Black Studies, tra cui «capitalismo razziale» e «tradizione radicale nera». La raccolta si conclude con un’analisi di Alvaro Reyes sulla configurazione razziale urbana, caratterizzata da ciò che chiama un «disprezzo storico-strutturale per la vita dei neri», che fece da sfondo all’omicidio di Michael Brown nel 2014 a Ferguson e con un’intervista di Anna Curcio ad Assad Haider sui limiti e le potenzialità future di Blm.
Da entrambi gli articoli emerge un elemento fondamentale per la comprensione della violenza e conflittualità razziale negli Stati Uniti di oggi: il suo motore sta soprattutto nella controrivoluzione neoliberale degli anni ’80, con tutto il suo corollario di repressione, securitarismo, incarcerazione di massa, esclusione sociale e urbana. È da qui che bisogna partire per capire questa nuova stagione di lotte. Senza però sfuocare dallo sfondo quanto ricordava Cleaver nel suo scritto: «Il problema non è mai stato il grilletto facile, bensì un ordine sociale dal grilletto facile».

LA COSA PIÙ IMPORTANTE però è che Black Fire può rappresentare un utilissimo strumento per la lettura del nostro presente, soprattutto se guardiamo agli effetti delle mobilitazioni di Blm nei nostri spazi, tra cui la nascita in Italia di diversi collettivi neri con lo stesso nome. Non si tratta di cercare sterili analogie tra due realtà comunque molto diverse, benché prodotto entrambe della stessa modernità-coloniale-globale; ma di rinnovare e (r)affinare uno sguardo antirazzista che, come pratica teorica e politica, fatica molto a uscire da uno storico «daltonismo razziale», per non dire, più maliziosamente, da una certa innocenza (tutta) bianca.