Trent’anni fa usciva nei cinema New Jack City. Il film era diretto dal regista e attore Mario Van Peebles e voleva rappresentare un ritorno a una cinematografia di genere che riportava al centro la cultura e i costumi dei neri dei ghetti urbani. Fu definito un ritorno alla «blaxploitation», facendo riferimento a quel ricco filone di film, a basso costo ma ad altissimo tasso di energia, che negli anni Settanta aveva lanciato personaggi come Shaft e affermato il poliziesco nero. Il giovane regista sapeva quello che stava facendo, essendo figlio di Melvin Van Peebles che fu proprio uno dei fondatori della «blaxploitation» con il suo Sweet Sweetback’s Baadasssss Song, pellicola del 1971 di cui era anche protagonista e che fu un sorprendente successo, incassando dieci volte il costo di produzione. Una caratteristica indimenticabile di quei film, omologhi afroamericani degli italici poliziotteschi, erano le colonne sonore. Nel 1972, proprio grazie al commento musicale del film Shaft, Isaac Hayes vinse l’Oscar per la miglior canzone originale, portando alla ribalta un genere considerato di serie B. Ma se i film di quella stagione esplodevano a ritmi di scazzottate, sparatorie e vibrazioni soul funky, anche il revival rappresentato da New Jack City viveva una sua dimensione musicale grazie all’apice di una corrente oggi un po’ dimenticata, ma che stava vivendo un momento d’oro: il New Jack Swing.

IL NOMIGNOLO
Il film di Mario Van Peebles, interpretato da Wesley Snipes, Judd Nelson, dal rapper Ice-T e dallo stesso regista, richiamava nel titolo il nomignolo che era stato dato a questo fenomeno musicale da Barry Micheal Cooper sulle pagine del settimanale newyorkese Village Voice. Lo stesso giornalista firmò la sceneggiatura del film, ambientato a Harlem e dedicato a una lotta tra poliziotti e gang nel periodo in cui i ghetti neri erano devastati dal crack. Cooper aveva creato il termine New Jack Swing ascoltando una nuova generazione di artisti che prendeva le mosse dai ritmi introdotti dall’hip hop e li univa alle tendenze più moderne del tradizionale r’n’b e alle forme più classiche della black music. L’espressione «new jack» richiamava il linguaggio della strada e significava «nuovo» o «novellino» ed era spesso riferita alla nuova recluta di una gang; il termine swing faceva riferimento ai ritmi derivati dal jazz che all’epoca erano pesantemente confluiti nel rap e che vennero poi riprodotti da drum machine. «La prima definizione che trovai – dirà Cooper in un’intervista – era musica bubblegum sofisticata».
In effetti dalla seconda metà degli anni Ottanta, parallelamente alla rivoluzione hip hop tanti artisti neri si stavano dedicando a canzoni raffinate, indiscutibilmente pop e ballabili, pensate per club alla moda e per un’audience che non amava molto indossare sneaker e cappellini da baseball. Il New Jack Swing addomesticava la scena urbana più radicale e militante e rappresentò per un decennio un genere di enorme successo commerciale finendo però per allargare anche i confini dell’hip hop, trasformandolo in un elemento onnipresente e definitivamente mainstream.
Uno dei protagonisti di questa svolta fu Teddy Riley, un giovane produttore newyorkese che a vent’anni debuttò con un trio, i Guy, diventando poi in pochi mesi la forza motrice di un intero movimento, firmando la produzione di decine di album di artisti diversi. «Se Hendrix, Brown, Stone e Gaye sono il punto di partenza e Prince il ponte, Teddy Riley è il lato opposto», scrisse Barry Micheal Cooper sul Village Voice, sigillando l’inizio della nuova scena musicale. Si rievocò il «rinascimento di Harlem», ricordando gli anni in cui il quartiere nero di Manhattan era diventato il cuore della musica jazz. Negli stessi anni però la rielaborazione della black music passava anche dalle mani di altri due maghi della consolle come i produttori Jimmy Jam e Terry Lewis che nel 1986 erano stati capaci di prendere Janet Jackson, la sorellina di Michael, ignorata dal pubblico e ricordata solo come comparsa nella sit-com Arnold, e trasformarla in una star di prima grandezza con Control, disco milionario che coglieva in pieno lo spirito del nuovo corso della musica black. Il primo vero successo discografico associato all’etichetta di New Jack Swing fu Make it Last Forever esordio datato 1987 del cantante di Harlem Keith Sweat, prodotto da Riley. L’anno dopo il protagonista assoluto fu Bobby Brown che sotto l’egida dei produttori Babyface e L.A. Reid conquistò le classifiche con il bestseller Don’t Be Cruel, un album che venderà 12 milioni di copie trascinato dal singolo My Prerogative. Intanto Teddy Riley lanciava artisti come Johnny Kemp e Al B. Sure! portando al disco di platino anche i suoi Guy. Le radio e il pubblico di ogni estrazione etnica sembravano non averne mai abbastanza di canzoni che suonavano fresche e nuove, erano capaci di essere ritmate, funky, ballabili, aggressive, ma anche irresistibilmente sexy. New Jack Swing divenne anche un’estetica. Qualcuno parlò di hip hop couture. Il pubblico americano si era innamorato dello stile dei protagonisti della serie Miami Vice, nella musica era tempo di riscoprire l’eleganza classica un po’ ostentata con giacche, dolcevita, mocassini e vistosi gioielli. Erano finiti in soffitta gli abiti eccessivi e i lustrini dell’era della disco-dance così come erano taboo (soprattutto sulle copertine) scarpe da ginnastica e tute che venivano lasciate ai rapper più intransigenti.

SCINTILLE CREATIVE
All’inizio degli anni Novanta la scena si era arricchita di artisti come i Bell Biv Devoe, gli Heavy D and The Boys, i Tony! Toni! Toné!, Ralph Tresvant, tutti capaci di raggiungere i vertici delle classifiche. Nel 1991 New Jack City fu la celebrazione del movimento. La pellicola era la perfetta fusione tra l’hip hop di strada impersonato dal protagonista Ice-T e l’apparenza più ricercata del boss di Harlem interpretato da Wesley Snipes. Teddy Riley curò la colonna sonora in cui comparivano anche Keith Sweat, Johnny Gill, Color Me Badd e rapper più ortodossi come lo stesso Ice-T, Queen Latifah e i 2 Live Crew. Intanto Riley era stato contattato nientemeno che da Michael Jackson. Il re del pop era alla ricerca di un nuovo sound. Aveva interrotto il suo sodalizio con Quincy Jones che durava dagli anni Settanta e aveva capito che nell’innovazione del New Jack Swing c’era la scintilla creativa che stava cercando. Riley produsse così sette delle quattordici tracce dell’album Dangerous che venne pubblicato nell’ottobre del ’91. Nel disco confluivano ritmi hip hop e intermezzi rap. Jackson, indiscutibile re Mida della discografia, disse a Riley «la melodia è il re» e si assicurò sempre che le canzoni mantenessero la barra dritta verso il gusto pop e l’accessibilità. Ne uscì un disco da 30 milioni di copie, l’apice commerciale del nuovo stile musicale. Una definitiva consacrazione che però fu l’inizio del declino. I dischi di debutto di gruppi come i Boyz II Men (Cooleyhighharmony) e il trio femminile TLC (Ooooooh… on the TLC Tip) furono tra gli ultimi acuti di quel suono. Si stava già assistendo a una metamorfosi. Dalla metà degli anni Novanta gli elementi costitutivi del New Jack Swing erano diventati onnipresenti, ma anche così diluiti in altri stili e generi da aver perso la propria connotazione. Oggi molte canzoni di quell’era sono invecchiate male e suonano super prodotte e un po’ ingenue, altre però mantengono tutta la loro energia e freschezza. Il New Jack Swing aveva fuso hip hop e r’n’b, aveva saldato insieme il suono dei ghetti, il pop contemporaneo e la classe della black music tradizionale. Quando uscì di scena non fu un fallimento, ma una missione compiuta.