La rapida diffusione su scala globale del Covid 19 mostra, su un piano nuovo, la mondializzazione simultanea dei fenomeni che attraversano la nostra epoca. Ora non è solo il riscaldamento climatico a ricordare ai popoli della terra che la comune casa è in pericolo.

Anche gli invisibili vettori di patologie potenzialmente mortali, vengono a rammentarci la nostra comune, fragile condizione di esseri naturali. Una universalità di specie che non è messa al riparo da barriere nazionali, confini, frontiere. Il virus se ne infischia della diversità di lingue, culture, fedi religiose, potere politico e militare degli stati. La natura, sotto forma di malattia o di alterazione ambientale, anche per responsabilità umana, esercita la sua signorìa su una scala che cancella ogni diversità storica e identità nazionale.

Dovremmo oggi tenere nel debito conto, di fronte a questa elementare verità, il drammatico ritardo culturale e politico-istituzionale con cui l’umanità – a questa dimensione elementare ci riducono i fenomeni di cui parliamo – affronta le sfide che essi pongono.

Tutte le società sono organizzate in stati-nazione, delimitati da frontiere geografiche e dalle barriere invisibili delle leggi, che dividono e frammentano il mondo in entità separate e contrapposte.

Potremmo dire, senza forzare molto, che mentre il pianeta Terra ci appare a uno sguardo scientifico – quello dei satelliti – e ormai alla comune percezione, un unico ecosistema, noi ne affrontiamo i problemi organizzati secondo l’assetto di potere che risale al 1648: la pace di Westfalia.

Pur scontando tutte le trasformazioni intervenute in età contemporanea nel corpo della società e delle istituzioni, così come il protagonismo delle realtà orientali, noi siamo fermi agli stati-nazione che quel trattato sancì nella loro forma assoluta.

E questa forma vecchia di organizzazione della società, inadeguata, in ritardo gravissimo sulla storia del mondo, che impedisce oggi di affrontare su scala generale le sfide divenute globali. E non ci sfuggono certo le ragioni di questo ritardo.

Il potere capitalistico continua a reggersi su impalcature dotate di grandi forze inerziali, vecchissime, ma funzionali.

Paradossalmente, il sistema trova il suo punto di forza e di perpetuazione nella geografia degli stati nazionali in reciproca concorrenza. Una modalità di organizzazione del potere, ancorché globale, che consente alle rispettive classi dirigenti il dominio, nello spazio della nazione, sulle classi medie e subalterne, E questo grazie alla possibilità di imporre la crescita come l’unica strada percorribile per “vincere”, per creare occupazione e reddito.

E’ grazie a tale assetto che tutti gli stati vogliono “correre” e sono sempre più facilmente disposti a trasformare la competizione in guerra, a spendere somme ingenti in armamenti, vale a dire a far mancare risorse alla sanità, alla scuola, alla ricerca, per impiegarle nella costruzione di ordigni che distruggeranno vite umane, animali, edifici, habitat.

In questi giorni, ancora una volta, assistiamo al colpevole fallimento dell’Unione europea di fronte alla situazione drammatica dei profughi che premono alla frontiera greco-turca e in alcune isole greche.

Ne hanno scritto su questo giornale, con parole di lucido e accorato sdegno, Ginevra Bompiani, Guido Viale e Alex Zanotelli.

Ma quali sono le cause profonde di tanto cinismo, anzi della deliberata ferocia con cui le classi dirigenti europee respingono masse di disperati, vecchi e bambini, scacciati dalla loro case distrutte da bombe europee e americane?

Che cosa se non il fatto che in questo o in quel paese, che dovrebbe ospitare migliaia di migranti, occorrerebbe investire in strutture di accoglienza da sottrarre alla macchina dell’economia nazionale? Che cosa se non il fatto che il ceto politico, impegnato a difendere il proprio potere e consenso su un’opinione pubblica nazionale manipolata e impaurita, non intende recedere di un millimetro?

La logica degli stati-nazione – in questo caso anche miope e controproducente, come ricorda Zanotelli – prevale su una visione più ampia e potenzialmente più solidale, quale dovrebbe essere quella continentale dell’Europa.

Quanto suonano oggi lontane le parole del Manifesto di Ventotene di Ernesto Rossi e Altiero Spinelli, che aspiravano a una Europa federata capace di abbracciare.

Era il 1941: quanto è regredita la civiltà politica dell’Europa e del mondo! Tanto da fare apparire mere ingenuità simili aspirazioni. In realtà, alle menti che sanno guardare lontano, esse dovrebbero apparire come un monito.

La ferocia dell’Europa di oggi ci mostra la futura malvagità con cui verranno respinti e alla fine massacrati, dai vari stati-nazione, i milioni di disperati cacciati dalle loro terre dal riscaldamento climatico. Allora la barbarie stabilirà la sua signoria nelle relazioni fra i popoli e sarà ormai troppo tardi per porre un argine.