Leggere Beppe Fenoglio implica soprattutto imparare a rileggerlo alla luce del tempo che stiamo vivendo. I suoi tanto ramificati, quanto involontari, legami con il corpus letterario prodotto dagli autori che dal secondo dopoguerra accompagnano l’evoluzione della cultura italiana, liberatasi dal fascismo, fino alle soglie degli anni della contestazione, sono conclamati.

L’INTERFACCIA immediata di Fenoglio è peraltro Cesare Pavese, al quale lo unisce l’attrazione fatale per il complesso impianto semantico delle lingue anglosassoni. Il plurale è d’obbligo poiché entrambi le hanno frequentate, scavate, tradotte e vissute in molti modi. Partendo dalle Langhe e, in fondo, per molti aspetti rimanendoci per tutta la loro esistenza. Tuttavia, la scrittura di Fenoglio è intrisa non solo di potenti anglicismi ma soprattutto di luoghi ideografici, di parole che si sostanziano nello sforzo di rendere idee attraverso dei segni condivisibili, destinati comunque a risultare all’autore come inesorabilmente insoddisfacenti. Alla letteratura dell’erotismo del martirio celebrata dal fascismo contrappone il passo di una scrittura fortemente spezzata, intimamente autoriflessiva, quasi che le parole debbano aderire ai passi pesanti, e dolenti, della sua esperienza partigiana, ovvero della trasposizione che di essa ne viene fatta nell’epica del partigiano Johnny.

PERALTRO, la sua espressività sembra volere aderire ad una logica in versi, quasi che la prosa possa trasformarsi in una poetica poiché essa deve descrivere un mondo in frantumi, uno specchio infranto, quindi da ricomporre minuziosamente raccogliendone gli infiniti frantumi. Anche per una tale ragione la scrittura di Fenoglio è attraversata dal senso del disincanto preventivo, quel sentimento complesso e composito che lo incalza strenuamente, priva com’è di necessità ideologiche. Semmai, alla stregua del Paradise Lost di John Milton, che è la cornice di molti passaggi letterari e del senso di smarrimento che accompagna la penna dell’autore, ciò che ricorre in maniera persistente è il bisogno di tradurre questi stati d’animo in passioni assolute, e con essi l’incertezza in milizia.
Poiché la nausea, che spesso pervade i suoi personaggi, ha ben poco da condividere con gli echi leopardiani, la melanconia di Dürer, la filosofia di Sartre e molto, invece, con il bisogno di arrivare ad una sorta di teodicea laica, dove al male si oppone il senso della pietà e dell’umanità. Il vero riparo, nella scrittura di Fenoglio, è tuttavia il rapporto tra terra e generazioni, tra spazio e tempo.

«LA MALORA», in quanto silloge delle fatiche di un Giobbe contemporaneo, si muove tra la spietatezza di una storia collettiva senza la promessa di una liberazione e quelle domande radicali, dure come le pietre, che il mondo dei vinti non è mai riuscito a formulare da sé, affidandole al tramite di chi, come per l’appunto lo stesso Fenoglio, ha inteso la sua opera letteraria mai come una espressione estetica (quale invece il fascismo andava proponendo) e sempre come un esercizio civile. La lezione di Pietro Chiodi e Leonardo Cocito, i suoi veri maestri, sta forse soprattutto in questa esigenza.

Come tale, ossia nel suo essere figura errabonda, irrisolta e solitaria nelle scelte di vita (studi interrotti, militanza in formazioni partigiane tra di loro molto diverse, un solido antifascismo connotato tuttavia da un’irrisolta propensione per la monarchia, la lunga dipendenza economica dai genitori), oscillò sempre tra il bisogno quasi bulimico di scrivere e l’insoddisfazione programmatica verso i suoi esiti narrativi. Una sensazione, quest’ultima, incentivata dal rapporto intimamente conflittuale con il cenacolo intellettuale dell’Einaudi, che era l’allora filtro e setaccio di molte fortune e non poche sfortune letterarie.

Ciò che ci ritorna nel nostro presente di un autore mai trascorso è quindi il suo inquieto senso di incompiutezza. Il suo lungo racconto della Resistenza si inscrive dentro questo registro, a tratti implacabile, dove di letterario c’è ben poco, privilegiando semmai il taglio antropologico.

LA SUA FORTUNA, peraltro, è stata tutta postuma. In accordo con un’espressività, sospesa tra ardite manifestazioni idiomatiche inglesi e italiane, dalla quale deriva «una prosa incessantemente produttiva di neoformazioni lessicali, morfologiche e sintattiche» (Dante Isella) che ricalcano le fluttuazioni di una coscienza programmaticamente inquieta.