Critico che fece della laconicità, oltre che un abito sociale, l’espressione conoscitiva più compiuta, grimaldello per entrare nel cuore di profili stilistici non ancora assodati, Félix Fénéon è stato il primo a individuare, allo stato nascente, la rottura che un gruppo di pittori, da lui definiti neoimpressionisti, consumarono a partire dalla metà degli anni ottanta dell’Ottocento: Seurat, Signac, Cross e qualche eccellente minore.

Questi, sulla scienza dei colori complementari, andavano a costruire un sistema di recupero (anche monumentale) della forma e di stabilità ottica, in alternativa al naturalismo percettivo di Monet, Sisley e gli altri. Sappiamo che da tale rovesciamento, accanto quello operato dai ‘passaggi’ dell’ultimo Cézanne, doveva nascere l’arte del Novecento, ma fu proprio Fénéon, con le sue descrizioni all’osso, a divinarne gli sviluppi e a vedere che l’impressionismo, quando ancora risultava avanguardia anche ai più avvertiti, aveva esaurito il suo ruolo storico e rischiava di naufragare in «brillante volgarità» (così Fénéon su Monet, 1888).

L’homme qui désirait être oublié, secondo la definizione (anche il titolo) nel bel ritratto di Féneon scritto da John Rewald, è conosciuto in Italia solo minimamente, e di più come scrittore fulminante da quando Adelphi, per iniziativa di Matteo Codignola, ne ha editi, 2009, i Romanzi in tre righe. In francese esistono due volumi (Libraire Droz, 1970) che raccolgono l’opera completa, da cui ha attinto Giuseppe Zuccarino per un’antologia nel 1993 (Graphos).

Castelvecchi, a cura di Paolo Martore, presenta invece, per la prima volta in forma integrale con il titolo Al di là dell’impressionismo (pp. 78, euro 10,00), l’unico libro – libretto aureo – pubblicato in vita da Fénéon, Les Impressionistes en 1886: si tratta di tre resoconti di mostre tenutesi a Parigi nel corso di quell’anno, a partire dall’ottava e ultima esposizione degli impressionisti, entro la quale, proprio, «Pissarro, Seurat e Signac innovano» (il primo, convertito dagli altri due, farà poi marcia indietro). Seurat presenta la Grande Jatte, dove la «scomposizione dei colori», condotta dall’occhio monettiano in modo «arbitrario», viene a realizzarsi «in maniera conscia e scientifica».

Ora, se Seurat appare a Fénéon, per rigore di applicazione, «quasi un Puvis de Chavanne in abiti moderni», nella cronaca drammatizzata che egli fa delle opere di Signac – «frenesia luminosa», «voragine di blu accecante» – si avverte già l’apertura verso quel sistema di punti più liberamente manovrato (messo poi in evidenza in un saggio sul pittore del 1891) da cui scaturiranno le fiammate dei Fauves. E pensare che l’opera più ‘retriva’ di Signac, la più inappellabilmente fin-de-siècle, è proprio il ritratto a ritmo floreale dell’amico Fénéon. Attenzione: Fénéon fu anarchico non sognatore di tono baudelairiano, nascondeva in ufficio detonatori e un flacone di mercurio, fu arrestato e incarcerato, e liberato anche su testimonianza di Mallarmé, dei cui ‘martedì’ era ospite fisso con il suo cinico pizzetto. Anarchia politica e nuovo ordine stilistico a base scientifica, come accoppiarli?