«Chi non sa fare l’amore fa la guerra». Così la protagonista del film «Come pietra paziente» (di Atiq Rahimi) condensa le riflessioni di giorni trascorsi accanto a un anziano marito, in coma per una pallottola, in una Kabul sotto assedio. Un flusso di coscienza che la renderà libera dalle gabbie culturali che l’avevano stretta permettendole di guardare in una nuova luce gli «eroi di guerra». Uomini violenti ma terribilmente miseri nella propria inadeguatezza: non conoscono il proprio corpo né il piacere, non sanno fare l’amore. È l’Afghanistan sotto l’attacco dei talebani. Ma potrebbe essere la Nigeria delle scorrerie di Boko Haram o la Siria e l’Iraq delle violenze dell’Isis sulle donne yazide.

Sotto i conflitti religiosi nel cosiddetto mondo arabo, le controversie politiche e le rivendicazioni territoriali, la radice comune è quella del controllo dei regimi sui corpi, in particolare quelli delle donne. Così quelle che sembrano irrazionali esplosioni di violenza nelle nascenti dittature hanno in questo la propria chiave di comprensione. Lo spiega bene la giornalista Mona Eltahawy nel libro che Einaudi ha pubblicato con il titolo «Perché ci odiano» (2015), ma dal titolo originale molto più esplicativo: «Veli e imeni. Perché il mondo arabo ha bisogno di una rivoluzione sessuale». Dalla questione del velo a quella della mutilazione genitale femminile, Eltahawy insiste sulla corrispondenza semplice e feroce tra regimi e dispositivi per il controllo della sessualità femminile.

Oggi nel mondo c’è la percentuale più alta della storia di donne «velate» e la mutilazione genitale femminile riguarda ancora 125milioni di donne e bambine. Un fenomeno puntellato ovunque da ordinamenti giuridici che prevedono indulgenza per la violenza domestica o impunità per lo stupro, e che sistematizzano i meccanismi per «tenere a bada la sessualità femminile». Le chiamano leggi a statuto personale: sono le norme patriarcali che regolano matrimonio, divorzio, custodia dei figli e questioni ereditarie. E garantiscono sempre la non disponibilità di sé e del proprio corpo da parte della donna. Trarre da tutto ciò argomenti di superiorità morale e politica dell’occidente sarebbe fin troppo facile. Ma la posta in gioco è più alta: i diritti e le libertà dei corpi sono il banco di prova delle nostre democrazie. Non è il caso di etichettarle come «questioni di genere».

Si tratta di qualcosa che ha a che fare costitutivamente con la vita e la salute di una democrazia. E i segnali di cedimento sono nitidi anche in occidente: nelle dichiarazioni di Donald Trump («le donne che intendano abortire dovranno andare in un altro paese») o nella legge irlandese che consente l’aborto solo alla donna che rischi la vita, nel parlamento polacco che tenta di metterlo completamente al bando. Segnali che non rimangono sotto traccia nemmeno nel nostro paese, dove la procreazione assistita non è un diritto, i ginecologi obiettori sono la maggioranza, i valori femminili sono stati sconfitti e la parità si declina come occasionale assunzione mimetica di valori maschili.

Un paese dove non si può parlare di legalizzazione della prostituzione, figuriamoci di sessualità in carcere. In compenso, però, il mercato delle armi triplica il fatturato. Armi che vendiamo anche a paesi che violano i diritti umani: Arabia Saudita, Emirati arabi, Bahrein, Quatar. Forse, allora, quel paese dove chi non sa fare l’amore fa la guerra è un po’ anche l’Italia. Interessa tutto questo alla politica? E riguarda i cittadini? Decisamente sì.

Oggi comincia a Torino (Sala delle Colonne, via Milano 1) il congresso dell’associazione radicale Certi Diritti. Il titolo è «Dialogo e carezze. Il personale come pubblico e politico». Vale la pena di seguirlo: se è vero che, come diceva Adele Faccio: «Nessuna rivoluzione è possibile senza la rivoluzione sessuale».

* presidente di Radicali Italiani