La mattina della partenza per la mia prima volta al festival del cinema di Cannes (che poi io giunga a destinazione l’indomani poco importa) ho cambiato profumo. Dopo anni. Non so se accada a tutti, ma cambiare essenza, soffiata sulla pelle giornalmente da uno spray o poggiata attraverso due minuscole lacrime dietro le orecchie direttamente dall’elegante flacone, non è cosa da poco. L’ultima volta mi era accaduto alcuni anni addietro, un paio di giorni prima di girare il mio primo lungometraggio di finzione. Passai davanti ad una storica profumeria romana e dopo una mezzora di tentativi trovai il mio oggetto del desiderio: “un bois vanille” si chiamava.

Fu una scelta azzeccata: per le quattro settimane di riprese, ogni mattina, di risposta al mio saluto di buongiorno con affettuoso bacio sulle guance rivolto ad ogni membro della troupe, ricevevo un commento di apprezzamento per la piacevolezza dell’aroma che mi avvolgeva. Da un mesetto circa ero rimasta a secco. Decidere di cambiare è stato velocissimo: entrata, pronunciato due sole parole “ambre sultan”, pagato, uscita. Questa fragranza dal nome esotico è più dolce, più femminile, più energica: mi corrisponde. Come questo strano viaggio in treno di lento avvicinamento alla meta, per la mia prima esperienza sul più glamour lungomare del mondo, la Croisette. Vedremo se qualche passante si girerà per un attimo, interrompendo la sua folle corsa, per odorare nell’aria un po’ di me.

Secondo giorno di viaggio. La mattina mi sveglio a Milano, tra tre ore sono sul treno verso Cannes (finalmente!) e mi accorgo di aver dimenticato le medicine! Tragedia a fosche tinte. Gastro protettore e Nicetile, antiossidante dei neuroni del sistema nervoso centrale e periferico. Mi sembrava di aver preso tutto e invece… Ricerca ossessiva di una farmacia alla stazione Centrale. Mi danno tutto senza ricetta, grazie stra grazie come direbbe Marilyn.

Gli incontri in treno sono già film. Una biondina 3enne con voce acuta martella il cervello di ogni passeggero nell’arco di venti sedili avanti e indietro, nessuno interrompe il suo urlo da Tarzan “ho vinto, ho vinto, ho vinto ancora!”. Il desiderio di schiaffeggiarla convive in tregua con il mio stato di madre felice e appagata (di figlio maschio però). Sarebbe un magnifico inizio di film di un indie dissacratore americano, un Tom Di Cillo di Si gira a Manhattan o un qualche francese sopra le righe, come Anne Fassio, la regista del delizioso Je déteste les enfants des autres. (Presto la serie americana, The slap, remake dell’originale australiana, tratta dall’ottimo romanzo di Christov Tsiolkas, rimetterà in circolo temi universali come la famiglia, l’educazione della prole, la fedeltà coniugale, la morale umana). A Genova la disturbatrice minorenne scende. Tutto il vagone tira un sospiro di sollievo tra sguardi complici e brevi commenti da pedagoghi nati quali siamo tutti. I miei nervi, ben ossidati, ringraziano.

Apro il mio libro, ingenua speranza di dedicarmi per qualche ora alla lettura. Dalla porta di separazione dello scompartimento giunge una vocina femminile delicata, un soave uccellino bruno si affaccia tra i sedili… Il padre affettuoso la rincorre, la prende il braccio, le mostra qualcosa del paesaggio. Resteranno o si sposteranno in un’altra carrozza? Questo il dilemma. Noi, ormai Erodi per un giorno, tremiamo sul sedile come un elefante di fronte a un topolino. Resta o se ne va, somiglia all’altra o è una bambina più quieta, introspettiva, con degli interessi intellettuali?

Il miracolo si compie: padre e figlia tornano da dove sono venuti. Il silenzio torna d’oro. Evviva René Clair. E ora fatemi arrivare in pace per la prima volta nella magique Côte d’Azur.
(Che invece poi così non sarà… Riesco a prendere il treno, mancano ancora dieci minuti, scendo a chiamare forse per l’ultima volta la mia famiglia ancora con una tariffa decente, chiudono le porte e io ho tutto dentro, la valigia e le cibarie… Panico. Busso ad una ragazza appena conosciuta che viene al portellone che continua a rimanere serrato. “Come ti chiami? Mi dai il tuo numero?” Una sceneggiata napoletana e l’ansia che sale e poi si aprono le porte, salgo sul treno, mangio una galletta e si parte davvero. Della serie: sono una paranoica. Ma anche: tutto è bene quel che finisce bene. E oltre: fare cose quando si è troppo stanchi è un po’ rischioso. Vado a concentrarmi sui film. Ce la farò, sì, ce la farò).

Fabianasargentini@alice.it