Esce domani nelle sale italiane un film «bomba», che testimonia ciò che il suo produttore Jonathan auf der Heide aveva teorizzato due anni fa nel talk show televisivo Big Ideas ( sulla rete australiana ABC1) nell’ambito di un dibattito sul tema Is the screen mightier than the sword, ossia: lo schermo è più tagliente della spada? In Femen – L’Ucraina non è in vendita di Kitty Green questo concetto emerge all’ennesima potenza sia dalle azioni del gruppo femminista ormai noto per le proteste a seno nudo con la scritta STOP! disegnata (quasi incisa) sulla pelle, sia dalla struttura del montaggio. Immagini live intervallate e in modo tutt’altro che convenzionale da interviste alle fondatrici del movimento, Inna Savchenko e Sasha Savchenko (pur avendo lo stesso cognome non sono sorelle), ai loro famigliari e a colui che viene considerato l’ideologo ma di fatto non lo è: Victor.
Con lui, nascosto sotto una maschera da coniglio, inizia Ukraine is not a Brothel (L’Ucraina non è un bordello), e nel corso del film si chiarirà questo equivoco molto criticato da alcuni giornalisti-critici soprattutto maschi (come hanno detto subito tutt’e tre).
Kitty Green, alla domanda di come è nato questo progetto, dichiara subito che anche lei, pur essendo nata e cresciuta a Melbourne in Australia, ha radici ucraine.

È stato in occasione di una visita alla nonna che vive tuttora nel paese in stato di guerra civile – «Istigata da un paese terzo», ha sottolineato Inna la sera della proiezione nell’ambito della decima edizione del Biografilmfestival – che la biondissima Kitty, diplomata al Victorian College of Arts e già collaboratrice della rete ABC, era venuta a conoscenza di un atto di protesta delle Femen vicino alla fontana dell’enorme Piazza Indipendenza a Kiev il giorno in cui anche lei sarebbe stata nella splendida capitale dalle cupole dorate. Il tema di quell’azione era «l’acqua»: quella calda dei rubinetti in casa, che pur essendo stata pagata da ogni abitante venne regolarmente tagliata durante le estati. Un fatto accettato passivamente da tutti ma non dalle Femen.

Quelle prime riprese le aveva mostrate alle ragazze, entusiaste del risultato perché molto diverso dalle solite immagini piatte riprese dagli operatori tv per i telegiornali – dato che ogni azione finiva in un arresto violento da parte della polizia di stato ucraina.
Così le Femen hanno chiesto a Kitty di filmare anche le successive azioni, e lei ha accettato. Dopo un po’ ha avuto l’idea del film. L’accordo era: lei avrebbe concesso gratuitamente le sue immagini, inviandole anche alle tv internazionali, in cambio di interviste copn loro di approfondimento. «È una produzione indipendente, in tutto abbiamo speso duemila dollari di tasca nostra», precisa ancora Kitty. Una volta presa la decisione, si era licenziata da ABC (che figura come sostenitrice del progetto nei titoli), e ospitata dalle due Savchenko per abbattere le spese di vitto e alloggio, ha condiviso la loro vita quotidiana, tra chiamate via skype, post su facebook e riflessioni su come procedere. E siccome non riusciva a fare tutto da sola, ha chiamato l’amico cameraman Michael Latham dall’Olanda, per aiutarla nelle riprese e nella cura delle luci in interno durante le interviste.

Cinematograficamente è spiazzante e innovativa la mescolanza tra azioni reali filmate, interventi diretti in macchina che si fanno sempre più personali e intimi svelando le ragioni profonde del loro agire individuale sulle piazze di Kiev o in altri luoghi culturalmente e/o politicamente di rilievo per dissacrarli usando unicamente la grazia innocente dei loro corpi bianchi in topless, scandalosa in un paese post-sovietico dove da sempre il maschio (ha) domina(to) la donna.

Inna e Sasha sono due vulcani in eruzione quando parlano delle loro esperienze, delle silenti connazionali tutte «letto, casa e chiesa» orientate unicamente verso l’ideale di sempre: sposare un uomo occidentale per raggiungere il paese delle meraviglie, ossia l’Europa. Ma quell’Europa ha reso il loro paese «la» meta del turismo sessuale, tant’è che sono proprio i comportamenti di quei signori nei loro confronti, mentre giravano tranquillamente per le strade di Kiev (toccate e interpellate senza scrupoli per fare sesso), ad avere acceso la discussione sulla condizione delle donne. E a essere il punto di partenza di una riflessione politica-sociale che cerca di mettere in luce il rapporto tra violenza domestica e violenza nelle piazze, dominio di un’unica persona su popolo intero e ribellione solitaria di contro quel Potere invisibile ma onnipresente, radicato nella nazione.

«La differenza tra le Pussy Riot e il gruppo Voyna attivi nella Russia di Putin sta proprio qui – afferma Inna, con sguardo sprizzante di energia sotto la sua corona di fiori di plastica, indossata con nonchalance sul completo arancione-bianco o arancione-nero – parlano entusiaste della rivoluzione arancione, poi sfumata nella delusione più nera con Timoshenko. «Noi affrontiamo le reazioni feroci della popolazione e della polizia, le azioni nella Piazza Rossa erano andate deserte, e la famosa performance nella chiesa ha fatto scalpore a livello internazionale soltanto dopo l’arresto delle Pussy Riot deciso dal loro dittatore».

«Noi siamo un piccolissimo gruppo che catalizza la forza di una piazza intera piena di gente che protesta per gettare in faccia al potere la sua violenza, mettendo al centro la questione gender». Quanto sta accadendo in Ucraina, a loro avviso, è un po’ la grande eco della resistenza che le Femen avevano iniziato nell’aprile 2008, con migliaia di azioni anche fuori dal loro paese, subendo una repressione di violenza inaudita. Per esempio in Bielorussia, dove ad azione nemmeno iniziata sono state caricate su un furgone dalla polizia, scortate al confine e lasciate in mezzo al nulla dopo essere state picchiate duramente. A piedi e al buio hanno dovuto orientarsi per arrivare nel paese oltreconfine, mentre Kitty è stata trattenuta per ore in un ufficio del Kgb di Minsk.

Quali sono le ragioni di una tale veemenza? Sebbene oggi si vive una situazione certamente più confortevole rispetto agli anni novanta di dura crisi, il muro non è in realtà crollato veramente. Esiste sempre quello tra donna e uomo, tra realtà femminile e realtà patriarcale, diritti e doveri non concessi e/o in parte non reclamati. Certo, le giovani donne si sono rese conto dell’illusione di quei night club in cui potevano entrare a gratis fino a mezzanotte a bere e a ballare, per poi essere date in pasto ai sex tourists giunti in massa all’ora di Cenerentola dopo aver pagato prezzi salati a chi li gestiva. Una fabbrica del sesso molto diversa, rispetto alla classica prostituzione o alle tratte altrettanto diffuse.

Dal 2012 Inna vive a Parigi, l’anno dopo Sasha l’ha seguita, ora abitano nuovamente insieme, rifugiate politiche, più attive che mai. «Ci sono gruppi Femen in dieci paesi, abbiamo provato a contattare alcune associazioni in Italia ma non abbiamo mai avuto risposta», disse Inna con un misto di entusiasmo e di delusione. «La caratteristica delle Femen è che in ogni paese l’obiettivo è diverso, per noi si trattava del turismo sessuale».