Sembra che quando Guido Aristarco abitava a Milano in zona Lambrate intravedendo da una delle finestre di casa il Campo dell’Ortica, dove all’inizio degli anni Cinquanta era stato girato Miracolo a Milano, ripetesse come un tormentone il suo noto giudizio negativo sulla favola zavattiniano-desichiana dicendo: «Com’era brutto quel film, com’era brutto!». La favola, il simbolismo, l’angelismo, sono per l’intransigente direttore di Cinema Nuovo – non solo per lui, ma per gran parte della critica di sinistra dell’epoca – la bestia nera, il contrassegno del rifiuto.

Come succederà puntualmente nel numero della rivista del 10 novembre 1954 dove La strada viene bollata come l’opera «falsamente lirica, intellettualistica, ambigua» di un «regista anacronistico, irretito in problemi largamente superati», mentre nel (futile?) gioco delle stellette non ne merita neanche una, come spetta, appunto, ai film «sbagliati». La bagarre era scoppiata a settembre alla Mostra di Venezia, dove la giuria assegna il Leone d’oro a Giulietta e Romeo di Castellani, che equivoco, e quattro Leoni d’argento ex-aequo a Kazan (Fronte del porto), Mizoguchi (L’intendente Sanshö), Kurosawa (I sette samurai), Fellini (La strada). Al momento della premiazione, i fans di Luchino Visconti – indispettiti per la rimozione assoluta di Senso e per il premio a Fellini – ci danno dentro con i fischietti che si sono procurati. I felliniani si avventano contro i viscontiani, volano i cazzotti, fino all’arrivo della polizia. La critica cattolica non esita a requisire l’autore di La strada, facendone la bandiera del cinema spiritualista. Il travolgente successo francese fa il resto. Senza trascurare il contesto (di cui la vicenda veneziana è uno dei casi più clamorosi), il libro di Aldo Tassone, Fellini 23 ½. Tutti i film edito dalla Cineteca di Bologna (pp. 870, euro 29,00) – si apre con la collaborazione al Marc’Aurelio e si chiude con la corrispondenza tra Georges Simenon e Federico – analizza (passa al microscopio?) titolo per titolo tutto il cinema del regista attraverso «Il racconto del film», ampia e suggestiva riproposta della struttura narrativa con puntuali riferimenti agli snodi decisivi, ai dialoghi rivelatori, ai tratti stilistici, movimenti di macchina compresi.

Si avverte subito la felice sicurezza critica di Tassone, autore di importanti monografie su Kurosawa, Antonioni, Ophuls, Truffaut, per oltre vent’anni direttore di France Cinéma. Non appena la moviola della memoria finisce di attraversare ogni film, si passa all’accoglienza critica in Italia, Francia, Stati Uniti, mettendo insieme un affollato panorama di interventi, che testimonia con singolare vivacità la presenza del cinema del Grande Trasfiguratore nella stampa internazionale: uno dei contributi più originali dell’intero volume. Nel febbraio 1960 La dolce vita, destinato a sconvolgere il modo di fare cinema non solo in Italia, suscita un polverone di polemiche, anatemi, interpellanze parlamentari, capovolgendo paradossalmente le contrapposizioni di pochi anni prima perché, attaccato violentemente dall’Osservatore Romano e dal Secolo d’Italia, è difeso dalla critica di sinistra in una delle più accese battaglie culturali che coincide con la svolta dei Sessanta.

Accanto alla biografia felliniana di Tullio Kezich, il libro – pieno di informazioni imprescindibili, di acuti spunti critici, di illuminanti citazioni dei maggiori registi di mezzo mondo – si candida legittimamente come il baedeker più prezioso del cinema del riminese. Solo alla fine spunta Il viaggio di G. Mastorna che, dopo il grande rotocalco epocale di La dolce vita e l’irripetibile sperimentalismo onirico di 8 ½, è forse il film più importante del regista, il tessuto germinale e fecondo in cui matura la crisi del maestro. Segnato dall’incontro fondamentale con lo junghiano Ernst Bernhard, capovolge la frustrazione del fallimento per il film che non riesce a fare nella svolta decisiva della sua carriera, da cui prendono il via i capolavori della grande stagione, da Fellini Satyricon a Roma, da Amarcord al Casanova, via via , fino a Intervista, nel segno del metacinema e del cinema-pittura, altrettante facce della straordinaria visionarietà dell’immagine.