Mettere gli occhiali. L’avvertenza compare in alto, sul pannello dove scorrono i sovratitoli. E suona un po’ come un allacciare le cinture, al decollo verso una meta favolosa e lontana. Di questo in fondo si tratta. Gli occhiali li hanno forniti all’ingresso in teatro, sono in realtà quegli occhialini bicolori che servono per la visione delle immagini nel cinema tridimensionale. Della loro necessità ci si rende conto quando inizia l’ouverture e sul sipario scende un grande schermo. La visione stereoscopica si inoltra fra le fronde fitte di un giardino. Un Eden alla Douanier Rousseau. Vi si ritrovano un bambino e una bambina vestiti alla marinara, come usava nella borghesia europea di un centinaio d’anni fa. Sono, in maniera evidente, Fanny e Alexander, i protagonisti del lungo film televisivo in cui Ingmar Bergman sublimava la propria infanzia.

Fanny & Alexander è anche il nome che, in omaggio al regista svedese, si è dato l’ensemble guidato da Luigi De Angelis e Chiara Lagani, da parecchi anni fra i protagonisti della nostra un po’ affannata ricerca teatrale. E ora al debutto nel teatro lirico, con questa applauditissima messinscena del Flauto magico al Comunale di Bologna. Nella convenzionale divisione dei ruoli, lui firma la regia mentre a lei si deve la drammaturgia che attinge di nuovo alla «lanterna magica» di Bergman, autore negli anni 70 di una citata trasposizione svedese dell’opera. Ma lo spettacolo porta un chiaro segno collettivo, dove convergono la scenotecnica di Nicola Fagnani e le immagini video dei filmaker Zapruder a cui si è già accennato.

Si è cercato di fare resistenza alla presenza invasiva, in questa cronachetta, di quegli occhialini 3-D, che quando li indossi avvolgono anche gli interpreti sulla scena in un alone di rosso e ciano. Ma come fare? Certo, prima di tutto viene la musica dell’ambiguo e magico Singspiel di Mozart. E la bella prova fornita dai cantanti sotto la direzione del maestro Michele Mariotti (fra gli altri Paolo Fanale e Maria Grazia Schiavo che sono Tamino e Pamina, il Papageno di Nicola Ulivieri, Sarastro di Mika Kares…). E la regia ci evita, grazie al cielo, di dover discorrere di simbologie massoniche e altre presenze esoteriche volentieri tirate in ballo quando si discorre di quest’opera, privilegiando invece la semplicità della fiaba, dove si sfogliano sentimenti primari – odio malizia amore.

Ma poi non si può prescindere, a livello di senso, da quelle due presenze infantili che si staccano dal fondo nella visione tridimensionale e ci appaiono ingigantite mentre armeggiano attorno a un teatrino di marionette (ancora Bergman naturalmente!). Che poi, si capisce, è quello in cui in cui va in scena questo Flauto magico, dove insomma gli spettatori sono a loro volta oggetto dello sguardo, in un dionisiaco gioco di specchi. E infatti il coro che arriva dai lati della platea veste la stessa divisa delle maschere di sala, mentre le mezze luci accese elidono la separazione della scena. Dove intanto sono apparse altre frotte di ragazzini nella medesima tenuta, a dare una mano allo sviluppo dell’azione.
Lo afferma anche la scenografia, in continuo movimento. Una serie di pareti che si chiudono a ventaglio per definire al centro un’apertura poligonale, replicando in grande il meccanismo di un diaframma ottico. Qualcosa di simile pare di ricordare in un lontano lavoro di Fanny & Alexander, Sulla turchinità della fata. Se lì però prevaleva la riduzione degli spettatori al ruolo di voyeur di un mondo infantile, qui è evidente il rovesciamento della prospettiva. In quell’Eden siamo finiti dentro, e per qualche ora ne saremo felici prigionieri.