«Un film fragile» scrive Federico Francioni del suo Rue Garibaldi che ha appena vinto nella sezione Doc\Italiana.Doc dell’ultimo Torino Film festival «a cui sono molto affezionato» anche se forse la fragilità di cui parla riguarda solo l’esile (ma agile) apparato produttivo costituito da lui solamente che ha girato, diretto, montato e sonorizzato in solitaria tutto il film con l’aiuto di Andrea Maguolo per la color correction , Riccardo Spagnol e Marco Falloni che lo hanno coadiuvato per l’audio. Una fragilità che non riguarda la consistenza cinematografica di questo toccante Kammerspiel 2.0, che invece è robusto come una vecchia quercia in quanto a sapienza registica, fatto com’è, ma la materia lo impone, di oculati posizionamenti della macchina da presa, di lavoro strategico sulla luce e sui colori, di un montaggio dell’audio tutt’altro che elementare. Rafik e Ines sono fratello e sorella, siciliani doc, ma di origine tunisina che a nemmeno vent’anni affrontano da soli una vita nuova, a Parigi. Francioni li pedina con trasudante affettività, vive con loro e ce li racconta.

Un’immagine in continua dialettica con la propria negazione, i molti bui, i bordi neri che la soffocano, i vetri appannati, molti, moltissimi campi vuoti, l’immagine come una fatica contro una parola pervasiva e libera…
Il progetto è stato da sempre per me una lotta di luce e ombra; io stesso avanzavo chiedendomi se sarebbe stato un film o no. Qui si gioca anche l’equilibrio del film: dobbiamo aderire e dissolverci in queste vite «straordinarie», o provare invece a distanziarci, a chiuderle in una forma, ad abitare lo spazio? Iniziamo coi lampi di un sottopassaggio di treno, e alla fine torniamo lì: siamo in un momento di passaggio, un po’ come l’esistenza di Ines e Rafik. Dall’inizio del film ho cercato di costruire un mondo di ombre attraversato da qualche luce – il letto, il luogo del riposo, dei sogni, è subito inondato di luce, e poi torna alle sue tenebre.

La scelta di non uscire mai di casa era più o meno voluta dall’inizio. La casa si configurava da sé come luogo di ombra assoluta, attraversata da una parte all’altra da qualche raggio di luce, dal sole che faceva il suo giro, come un faro, e questo mi piaceva perché ci ritrovavo istintivamente il senso del film.

Ritorna in diverse inquadrature il dipinto «Donna Alla Finestra» di Caspar David Friedrich, che in un film tutto girato in «interni» sia fisici che metaforici ha una sua funzione di senso precisa…
C’è un rapporto «metafisico» tra l’interno e l’esterno. Siamo saldi in un conforto domestico, nel mondo conosciuto, ma il dorso è rivolto all’esterno, la vita è altrove, lontana e potentissima. La finestra è un segno forte: il reale è lì, ma allo stesso tempo nascosto; La finestra in cui ci sono anche i bordi del muro, in cui il visibile è al di là; finestra come telefono, come passaggio di luce, come soglia da interrogare – il gioco strutturale tra nascosto/visibile. Nel caso «romantico» del dipinto siamo protesi verso l’esterno, qui in via Garibaldi siamo piuttosto vittime delle pressioni di un mondo violento che ci assedia da ogni lato.
All’inizio mi tenevo saldo a questo apparato formale, la mia «gabbia semantica», che poi è stata fatta saltare da Ines e Rafik, dall’urgenza della loro vita, dal loro muoversi nello spazio, dalla loro autenticità.
In definitiva credo che questo film sia da sempre strutturalmente legato a una certa idea di sottrazione: la luce è fioca, il mondo esterno quasi soppresso, le frequenze della voce sono tagliate; la narrazione è frammentata, le loro vite sono traiettorie lasciate a metà. E poi improvvisamente c’è qualcosa di umano, di irriducibile, che sopravvive a tutto questo, un calore.
Ed è anche un po’ la lotta del montaggio contro la vita indomabile: cerco di riportare tutto ad una forma, di dominare il reale, ma la forma sfugge, il reale mi si sbriciola tra le mani.

Rispetto alle immagini spesso svuotate o ostacolate, invece la parola fluisce libera: dialoghi tra i protagonisti «in presenza», ma anche (e tanto) parole profuse dai cellulari, in cui il corpo parlante è smaterializzato, posto nella distanza…
Il film è nato da subito come un «Film parlato». Il primo impulso è nato da un lungo messaggio vocale che Ines ha registrato una notte, raccontandomi la sua storia; un’ora buona di «confessione» – quando registri un audio ti rivolgi a qualcuno ma parli con te stesso- ed era esattamente il tipo di sensazione che cercavo. C’erano dei racconti bellissimi del suo rapporto con la Sicilia, la Tunisia, il suo arrivo a Parigi: lì ho capito che c’era tanta vita da raccontare. Alcune parti di questo messaggio – come di altri messaggi vocali di Rafik – sono nel film, e non sono state «abbellite» in nessun modo al mix: una voce che, attraverso il telefono, aveva perso gran parte delle sue frequenze «naturali», e mi sembrava che fosse in linea con la sottrazione della luce.

La scelta del dialogo poi è stata quasi obbligata per «accendere» Ines e Rafik, i loro desideri, la loro esistenza. Sono due personaggi che vivono attraverso la parola perché i loro corpi, in questa fase della loro vita, sono immobili; la stasi è della luce circondata dal buio, ma anche dei corpi, e della parola come unico veicolo di scambio. Da qui i molti problemi di montaggio, perché la parola in un film può essere troppo retorica, debordante; passa troppe informazioni che sarebbe spesso meglio far passare in altri modi. C’è voluto tanto lavoro per equilibrarla e darle respiro lasciando da parte del materiale anche molto bello, che però si depotenziava nel complesso del film.

Anche il cellulare è veicolo di questa sottrattività, quindi…
Il telefono è una delle finestre del film, forse una delle più importanti. La loro esistenza passa prevalentemente attraverso questo canale: il lavoro, la memoria, la socialità, lo sguardo sul mondo. Mi interessava molto l’aspetto della«gamification»: tutto il mondo che vedi è lì e non c’è bisogno di andare fuori. I lavori fatti da Rafik via app, come Uber, o poi il trading –sempre attività immediate che sono «fuori» dal sistema dello Stato e delle tutele – ti portano a una forma di smaterializzazione e isolamento, e allo stesso tempo a una sorta di gratificazione incosciente, per cui puoi andare avanti per ore e ore senza mai stancarti, perché sai che alla fine ci sarà un grafico in cui i tuoi guadagni segnati in verde saranno altissimi. Sei in un continuo presente in cui abiti la tua dimensione domestica, e lavori allo stesso tempo – o vieni licenziato, e quindi immediatamente ricominci a cercare un lavoro. Per quanto riguarda il tema delle radici, è un po’ la stessa cosa: mi dicevo spesso che le loro radici erano nei loro telefoni: i volti dei loro parenti, dall’altra parte del mare, così vicini, immediati, ma allo stesso tempo lontani dalla loro realtà (e rende facile mentire sul fatto che stai lavorando, che va tutto bene; così com’è facile mentire su Instagram, dove l’autorappresentazione di Rafik era molto diversa dalla sua esperienza di vita.