Attrice teatrale e cinematografica – ad esempio per Bellocchio in Sangue del mio sangue e Bella addormentata – Federica Fracassi è anche la direttrice, insieme a Renzo Martinelli e Francesca Garolla, del «Teatro i» di Milano, una delle tante piccole realtà che non hanno potuto riaprire il 15 giugno a causa delle misure di contingentamento. «Ma gli aperitivi si fanno, e anche il calcio è ripartito: questo contingentamento, fatto così, per me è incomprensibile», commenta Fracassi che in questi giorni sta lavorando con Andrea Liberovici a Maestranze – che condurranno insieme – in onda ogni sera dal 29 giugno in apertura di Radio 3 Suite. Nel programma a raccontarsi in prima persona – e a raccontare il proprio mestiere – saranno proprio tante delle figure oggi in piazza per manifestare: fonici, sarti, costumisti, macchinisti…

Sul sito del «Teatro i» spiegate che per voi per il momento è impossibile ripartire.
Abbiamo una capienza di 96 persone e secondo i protocolli possiamo far entrare un massimo di 12 spettatori. Potremmo inventarci dei progetti alternativi – performance in loop, attività virtuali – ma questo è anche un segno forte da dare alla comunità, per far comprendere che a queste condizioni l’attività è insostenibile per le strutture piccole. È vero che il ministero si è mosso, i finanziamenti ai teatri sono stati confermati, ma è come se ci fosse una contraddizione: da una parte si spronano i teatri ad aiutare gli attori e le maestranze, e dall’altra con queste regole è impossibile produrre e mettere in scena gli spettacoli in cui queste persone lavorano. Da un punto di vista legislativo noi siamo pressoché inesistenti. Bisogna avviare un tavolo istituzionale che riveda da un lato il contratto nazionale del lavoro nel teatro e nello spettacolo dal vivo e dall’altro i finanziamenti ai teatri stessi.

Le rivendicazioni della manifestazione sono infatti anche rivolte al futuro, alla necessità di rifondare il settore della cultura.
È importante che ci sia una visione più ampia, che si lavori per il futuro, anche di chi verrà dopo di noi. Già la nostra generazione facendo questo lavoro non ha mai avuto sicurezze, nessuna tutela. Figuriamoci quelli più giovani. Si parla tanto dell’Italia come paese della cultura, ma le parole non coincidono con ciò che viene fatto, e cioè nulla. Il finanziamento al teatro per esempio è bassissimo, cosa che poi crea anche una serie di inimicizie «tra poveri». Al momento però mi pare che tutto sia incentrato sui teatri più grandi, che sono i primi interlocutori del ministero. Ma il grande scandalo è che sembra che chi fa questo mestiere lo abbia scelto come optional: si tratta invece di persone che hanno investito nell’arte tutta la loro vita.

Nel Documento per un tavolo d’emergenza si parla dell’importanza dell’educazione all’arte e allo spettacolo nelle scuole.
Non sono assolutamente una fan di Macron, ma in Francia – dove già le tutele non sono paragonabili alle nostre – dato che l’attività artistica non poteva svolgersi sul palco è stata convogliata almeno in parte verso altre attività educative. Con il dispiacere causato dal pensiero che non tutti possiamo stare sul palco, credo che si potrebbero fare anche altre cose: ad esempio corsi di altissima formazione per i giovani che hanno appena intrapreso la professione. Bisognerebbe dare la possibilità di mettere in circolo le conoscenze e le professionalità.

Quali sarebbero le conseguenze culturali della possibile scomparsa di piccole e medie realtà?
La cultura non è inutile: è fondamentale specialmente in periodi di cambiamento come questo. La scomparsa dell’ecosistema di piccole e medie realtà creerebbe un danno nel tessuto sociale. Da un certo punto di vista è come quello che sta accadendo con il clima: andiamo avanti con i paraocchi dicendoci che ci sono necessità più grandi. Ma la necessità più grande è quella della sopravvivenza del pianeta: cosa ci serve per capire che è necessario proprio un altro modo di ragionare? Di questo passo anche nel nostro ecosistema culturale il grande si mangerà il piccolo, e si andrà sempre più verso una forte burocratizzazione del sistema, verso uno scenario in cui sopravviveranno due o tre grandi roccaforti del settore, da cui l’arte potrebbe uscire per reinventarsi in territori clandestini, non regolamentati: forse è il destino dell’arte, nel momento in cui non viene più accolta, di rinascere dalle proprie ceneri in posti nuovi.