Presidente del Centro d’informazione e studio sulle migrazioni internazionali di Parigi e ricercatore presso l’Institut français du Proche-Orient di Beirut, il sociologo Vincent Geisser è uno dei maggiori studiosi dell’Islam francese cui ha dedicato diverse opere, tra cui Marianne et Allah (La Découverte) e Ethnicité républicaine (Presses de Sciences Po). Non è perciò la prima volta che si misura con il nuovo terrorismo domestico di matrice jihadista.

I responsabili dell’attacco a Charlie Hebdo sono nati e cresciuti a Parigi. Come è possibile che si siano trasformati in fanatici jihadisti?
Intanto si deve chiarire come si tratti, prima ancora che di musulmani, di terroristi e criminali di professione. Soffermarsi su questo punto è decisivo non per motivi morali o per distinguere la religione dai loro atti, ma per capire davvero che cosa li ha trasformati in jihadisti, per comprendere il significato della loro traiettoria di morte. Perché dico questo? Ma perché in questi casi, come già accaduto per Mohammed Merah (il giovane della periferia di Tolosa che uccise alcuni militari e attaccò una scuola ebraica uccidendo anche dei bambini nel 2012, ndr), si tende a sottovalutare il percorso che conduce a questi atti terribili. Invece, e lo confermano gran parte degli studi sull’argomento, i rapporti dell’antiterrorismo, come anche i racconti che mi hanno fatto parenti e amici di alcuni terroristi che ho conosciuto, la maggior parte di questi individui si sono formati nelle fila del grande banditismo, della malavita. Hanno imparato le tecniche poi messe in atto negli attentati, come ad usare le armi d’assalto o a sfuggire ad un inseguimento della polizia, in questi ambienti molto più spesso che nei campi paramilitari allestiti in Medioriente. La loro deriva personale, spesso frutto di fattori diversi che sarebbe difficile generalizzare ed analizzare in poche parole, era iniziata già molto prima che facessero «il grande salto» verso il terrorismo islamico.

Già, ma che cosa può averli spinti a cercare una sorta di “senso” per le loro azioni proprio nel riferimento all’Islam e alla Jihad?
Per dare una risposta generale, si può immaginare che l’itinerario personale di questi giovani abbia conosciuto dei momenti di rottura, delle crisi, legate a fattori sociali come famigliari o emotivi che li ha spinti verso una radicalizzazione, verso la violenza, e che abbiano scelto l’Islam per dare una visibilità anche esteriore a quanto provavano. Non è un caso che “la fede” che esprimono è una sorta di fai da te. In larga maggioranza vengono da famiglie dove l’Islam non è particolarmente presente, hanno frequentato poco le moschee e studiato ancora meno il Corano. La loro «socializzazione musulmana» è avvenuta più spesso nelle prigioni, dove erano finiti per crimini comuni, per furti o traffici di varia natura, come la droga o le auto rubate. Con una formula direi che più che radicalizzarsi attraverso l’adesione all’islamismo, optano per ciò che gli appare come un simbolo di una scelta estrema, la più radicale tra quelle che hanno di fronte. Per questo diventano jihadisti.

Resta il quesito: perché tanti giovani francesi, diverse centinaia ad esempio quelli che sarebbero andati a combattere in Medioriente, hanno scelto proprio l’adesione all’ideologia della Jihad?
Perché simbolicamente, per quanto paradossale questo possa apparirci, la identificano con la ribellione, con la rivolta. Nella loro traiettoria di rottura con la società, spesso anche con la famiglia o con i loro affetti, nel loro malessere esistenziale, i simboli finiscono per contare più che la realtà, le forme esteriori più della sostanza delle cose. E così è attraverso la tv e la rete, con le immagini terribili che arrivano dagli scenari di guerra internazionali, che questi giovani si formano un’opinione superficiale su quanto avviene in Siria o in Iraq e finiscono per identificarsi con gli jihadisti. L’indottrinamento politico-religioso e il contatto con i gruppi organizzati arriva spesso in un secondo momento. E questo tipo di fascino assurdo per l’estremo, per la violenza, per ciò che appare come la cosa più lontana, e opposta, al mondo che si ha intorno, riguarda sempre più anche giovani che nulla hanno a che fare con la cultura musulmana: ragazzi nati nella provincia francese, in famiglie cattoliche e bianche. Come quell’adolescente bretone che ha cercato di raggiungere gli jihadisti in Siria di cui si è occupata recentemente la stampa del nostro paese.

L’estrema destra europea cerca di speculare sulla strage a Charlie Hebdo assimilando i terroristi agli immigrati. I nuovi jihadisti sono invece francesi e la cultura musulmana è sempre più integrata. Un paradosso?
No, solo la conferma da un lato che l’immigrazione non c’entra proprio nulla con questi fenomeni e dall’altro che sembra entrarci poco anche la pratica e la cultura religiosa. In Francia ci sono milioni di musulmani che non vivono soltanto nelle banlieue ma fanno anche parte del ceto medio e delle professioni liberali. Ci sono molti quadri, diversi parlamentari e anche qualche ministro. La Grande Moschea di Parigi data dal periodo tra le due guerre mondiali, e l’Islam, in tutte le sue tendenze e anime, è parte dello spazio culturale francese ormai da molto tempo.

Eppure, il riferimento alla presenza musulmana è stato spesso agitato per evocare paure e allarme, come Sarkozy che denunciava il ruolo degli islamisti nelle rivolte delle banlieue. Oggi le cose sono cambiate?
Non molto, direi. Anche se con Sarkozy si è raggiunto per così dire il picco della manipolazione politica dell’Islam in Francia. Sarko aveva da un lato contribuito a far nascere un Consiglio rappresentativo delle associazioni musulmane, per poi denunciare, contemporaneamente, il rischio di una deriva “comunitarista” della République, il tutto mentre se la prendeva con «i giovani barbuti» delle periferie. Invece una cosa è la fede, un’altra le rivolte urbane, altro ancora il terrorismo.