Il diritto di una coppia ad avere dei figli e a formare una famiglia è «espressione della fondamentale e generale libertà di autodeterminarsi». È dunque incostituzionale, il divieto di fecondazione eterologa, cioè con gameti esterni alla coppia, che era imposto nella legge 40, smantellata ormai pezzo per pezzo nelle aule di tribunale, e la sua cancellazione «non provoca alcun vuoto normativo». È quanto scrive la Corte costituzionale nelle motivazioni, pubblicate ieri, della sentenza 162 con cui lo scorso 9 aprile ha ripristinato la possibilità di accedere alle tecniche di procreazione eterologa. Non solo: «La disciplina in esame incide sul diritto alla salute» e, scrivono i giudici costituzionalisti, «in relazione a questo profilo, non sono dirimenti le differenze tra Pma di tipo omologo ed eterologo, benché soltanto la prima renda possibile la nascita di un figlio geneticamente riconducibile ad entrambi i componenti della coppia». Ma, come nell’adozione, «la provenienza genetica non costituisce un imprescindibile requisito della famiglia stessa». Inoltre, il divieto di fecondazione eterologa creava una discriminazione tra le coppie infertili «in base alla capacità economica delle stesse, che assurge intollerabilmente a requisito dell’esercizio di un diritto fondamentale, negato solo a quelle prive delle risorse finanziarie necessarie per potere fare ricorso a tale tecnica recandosi in altri Paesi». «Una lezione al governo che continua a difendere una legge indifendibile – commenta Filomena Gallo, legale della coppia che ha sollevato il caso – e che per la prossima udienza del 18 giugno dinanzi alla Corte di Strasburgo sul divieto di donazione degli embrioni alla ricerca, preferisce nominare come esperta la prof. Assuntina Morresi», molto vicina al movimento per la vita.