Non c’è da stare tranquilli sulle ragioni che hanno spinto i giudici della Corte Costituzionale a rinviare di almeno un paio di settimane la decisione sul divieto della legge 40 che impedisce alle coppie fertili portatrici di patologie genetiche di accedere alla diagnosi pre-impianto.

Eppure, persino il governo si è guardato bene dal costituirsi per difendere quel divieto, già condannato dalla Corte europea dei diritti dell’uomo. Una proibizione che è semplicemente priva di senso: permette la diagnosi pre-impianto alle coppie infertili ma non a quelli fertili con patologie trasmissibili, costringendole spesso ad un aborto terapeutico. E pensiamo ancora che l’accesso alle tecniche di procreazione medicalmente assistita è consentito anche ad un uomo fertile ma affetto da Hiv o epatite. Le condizioni per una decisione rapida, coerente con le precedenti sempre sulla legge 40 (eterologa, numero di embrioni…) ci sarebbero state tutte. «La strada è stata spianata», ha dichiarato l’ex presidente della Consulta, Giuseppe Tesauro, all’incontro promosso in Senato dall’associazione Luca Coscioni, aggiungendo però subito: «Questo non vuole dire niente perché anche sulla strada spianata c’è qualcuno che si può fare male e tornare indietro».

Ecco, appunto. I giudici costituzionali hanno preso tempo. L’anno scorso, in merito alla decisione sul divieto di fecondazione eterologa, già il giorno dopo l’udienza si era a conoscenza del risultato, che finalmente restituì la possibilità a migliaia di coppie di accedere alla fecondazione con gameti di terzi. Il rinvio, questa volta, potrebbe avere ragioni tecniche, con una Corte sottodimensionata e altre decisioni importanti in agenda. Potrebbero, però, anche esserci difficoltà a decidere in un contesto condizionato dalle barricate ideologiche clericali – mai del tutto smantellate- e da una politica ufficiale che non ama essere scossa da fatti nuovi sul fronte delle libertà civili, con un Parlamento che per oltre dieci anni ha deciso di non decidere, senza mai nemmeno discutere i divieti della legge 40, smantellata invece da 34 pronunciamenti di tribunali, di cui due della Consulta stessa.

La composizione della Corte fornisce indicazioni utili ad individuare alcuni protagonisti, come Marta Cartabia: nominata dall’allora presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano, giudice della Corte il 2 settembre 2011, è vicepresidente della Consulta dal 12 novembre 2014. «Cattolica dichiarata, mostra aperte simpatie per il pensiero di don Giussani (il fondatore di Comunione e liberazione), e non esita a criticare le scelte dei Radicali in materia di fine vita»: così fu presentata da Luca Simoni in un lancio del Velino al momento della sua nomina. Ai tempi del referendum, promosso tra gli altri dai Radicali con Luca Coscioni, Marta Cartabia insieme ad altri dodici docenti di Diritto Costituzionale diede vita a Umanesimo Integrale, uno dei comitati del «No» al referendum sulla legge 40 che, come ricorda l’Espresso in un articolo del 2005, «si definisce apolitico, apartitico, indipendente, si richiama al filosofo francese Jacques Maritain, ma è stato fortemente voluto dalla Cei, per mano di Monsignor Giuseppe Betori, braccio destro del cardinal Camillo Ruini».

Il fatto che i giudici possano avere riferimenti ideali ed anche politici i più diversi non è di per sé un problema. Se fossimo negli Usa, ciascuno si assumerebbe esplicitamente e apertamente le proprie responsabilità. Il meccanismo italiano, che non prevede la pubblicazione delle opinioni dissenzienti, è invece improntato alla ricerca del compromesso. Il problema arriva quando si pretende di mediare tra posizioni inconciliabili, inventandosi soluzioni creative di rinvio al potere legislativo: soluzioni che possono impiegare del tempo ad essere escogitate. Appunto. Non c’è da stare tranquilli.