Ogni opera che possa considerarsi tale deve sempre confrontarsi con un atto di coraggio. Il che può tradursi nel superare le convenzioni formali della letteratura che, non poche volte, si sviliscono nel rincorrere gli esponenziali cambiamenti che da vent’anni a questa parte coinvolgono l’umano. Cambiano i significanti, cambiano i segni e le parole, ma forse ciò su cui si può ancora contare come leva espressiva è il corpo, test ultimo per fissare l’esperienza viva e diretta di un’evoluzione senza fine. E non è allora un caso che ritornino in auge le autobiografie, anche con il fine di assecondare la predisposizione voyeuristica del virtuale, l’altra nostra identità che guadagna terreno sulla realtà biologica. Una cristologia capace di farsi verbo che tenga ben stretto l’umano e il divino pur passando per il dispositivo che, per sua natura, utilizza la logica matematica e dei consumi. Una letteratura che per forza di cose deve valicare i confini della tradizione.

Jonathan Bazzi ne è l’esempio concreto. Definirlo esordio letterario non è solo riduttivo, non può minimamente contenere l’entusiasmo che Febbre (Fandango libri, pp 327, euro 18,50) ha suscitato sia fra gli addetti ai lavori, ma specialmente fra i lettori. Finalista al Premio Strega per un’anomala sestina (in rappresentanza dei piccoli editori) e con i diritti già acquisiti per un film, superate le prime diffidenze per un libro che, si era intuito, avrebbe raccontato la vicenda autobiografica di un uomo che scopre di aver contratto l’HIV, il pubblico/consumatore più trasversale ha emesso la sentenza: è un libro importante. E lo è perché non fa sconti a nessuno, né all’autore né al lettore. Perché è una storia che, malgrado in apparenza possa sembrare mille miglia distante da quella del lettore, entra invece nelle viscere di certe dinamiche social(i) della (auto)rappresentazione, assumendosi il rischio di sovraesporsi, facendosi carne da macello, svelando non tanto l’oltraggio del contagio ma la rivincita dell’unità del corpo nell’epoca dell’apparenza.

Paolo di Paolo su Piccola storia del corpo (Giulio Perrone Editore) si domandava se Il corpo nudo dice dunque la verità? La risposta non è così immediata. E ancora: la «nudita» è da considerarsi come una riappropriazione del Novecento, come il superamento di un lungo Medioevo? Questioni che assumono nuove e inesplorate prospettive quando si ha a che fare con i nativi digitali, per cui il corpo (non necessariamente nudo, ma anche nudità di corpo come metafora della schiettezza profusa all’algoritmo) è estensione, appendice e moltiplicazione contenutistica.

Passato e presente lontani ma che si influenzano vicendevolmente, nel ricordo di ieri e nelle scelte di oggi. Il corpo muta così come i pensieri, ma in entrambi vive il continuum del sacrificio e della colpa cristiana che controllano e adeguano le penitenze ai nuovi meccanismo postcontemporanei. Bazzi fa una scelta precisa: due binari, l’io narrante adulto, universitario che scopre di essere malato; l’io narrante bambino di Rozzano, periferia sud di Milano, che fra i casermoni popolari deve apprendere a sue spese i formulari per (soprav)vivere. Un bambino balbuziente, introverso e in un ecosistema di machi, che presto capisce di essere attratto dagli uomini.

Sieropositivo, gay, genitori separati, povertà, bullismo, capro espiatorio, sembrerebbero le stigmate definitive – e in apparenza eccessive – di un corpo estraneo che invece, pagina dopo pagina, diventa uno specchio neorealista che ci interroga sulle personali parabole dell’esistenza che ci hanno strutturato in ciò che siamo. Nessun lirismo, prosa nuda, quel mondo di piccole e ininterrotte prevaricazioni, fratture e insuccessi – in un certo senso nulla di spettacolare – su cui speculano un’antologia di parole non dette e a cui l’autore dà voce, per condividerle certo, ma anche perché ci appartengono. Nessuno escluso. Nella lettura la sensazione può essere quella di attraversare una serie di sedute di psicoanalisi per ripercorrere l’infanzia, con la scrittura di Bazzi che, sia nelle pagine più introspettive che nelle immagini più dirette, riesce a far affiorare con delicatezza la voce interiore, libera, di un corpo regimentato nelle definizioni. Voce che con gli anni l’adulto tende a soffocare sull’altare dell’efficienza.

Anche per questo si può ben dire che si tratta di un romanzo politico, strutturato sulle conseguenze dell’esclusione e del distanziamento sociale indotto dalla tecnologia che, come nel caso dell’autore, può trasformarsi in salvaguardia del corpo prima ancora che dell’essere. Ma come dar contenuto alla paranormale e incorporea esperienza del dispositivo tecnologico che riduce il linguaggio in simboli e pochi vocaboli? Come dar forma allo schiacciamento dell’utente sui giudizi altrui? Come registrare il livellamento morale dei social? In Febbre, che sia con un punto a capo o una lineetta o un corsivo, i rumorosi giudizi esterni o quelli più intimi e disfunzionali, appaiono quasi come slogan, insegne luminose che si strutturano e si legano all’interno del ragionamento come fossero un fallo nella catena del Dna (corpo/molecola), a sottolineare la frammentarietà emotiva, schizofrenica ricostruzione del presente.

Le paure di Jonathan bambino sono state le nostre paure: promesse non mantenute, la tenerezza per quelle supereroine che dovrebbero proteggerci dal male o la disperazione adolescenziale di non essere accettati, la quale viene relegata negli anfratti dell’inconscio, producendo mostri invisibili, non oggettivabili. Dall’altro lato però i personaggi non sono caricature ma vividi esempi di grezza resistenza, periferici costretti ogni giorno a giocarsela a testa o croce. E che immancabilmente perdono. L’HIV allora diventa un appiglio scientifico – questo sì oggettivo – che unisce anima e corpo in un’unica sostanza, come nella filosofia aristotelica, perché c’è sempre un peggio, tanto da farsi salvifico. Il medium inserito nel corpo svela i costrutti e ordina il contesto caotico, socialmente crudele. Il virus paradossalmente diventa il motore propulsivo per riprendere in mano la propria esistenza, psichica e fisica.

In primo piano da bambino e sullo sfondo da adulto, sempre Rozzangeles, cupo epiteto del quartiere dormitorio che nelle pagine domina con un maligno condizionamento magnetico. Come se esistesse un’invisibile corda del destino che lega e non fa allontanare i suoi figli dalla torre Telecom, spaventoso totem della comunicazione ma ammutolisce i vassalli che, dopo l’immigrazione degli anni ’60, risiedono ai suoi piedi. Capitalismo fatto sostanza che non gradisce gli storti e spara lontano le sue onde invisibili sfruttando gli organismi, le terre su cui affonda le radici. Rozzano, uno di quei non luoghi dove la violenza, la diffidenza, il fallimento e la superstizione sono gli spartiti della quotidianità da imparare a memoria.

In Febbre straripa l’onestà dell’autore per affogare (e ribaltare) la colpa indotta e meschina, da sempre carica negativa di una società patriarcale e competitiva, in cui il corpo più debole deve sopperire. In cui l’identità sembra già scritta sulla base del girone dell’inferno che si abita. In cui l’ascensore sociale è guasto. E invece benvenuto Jonathan Bazzi, scrittore.