Il partito che da ieri notte è ufficialmente il più votato dagli italiani, o almeno il suo progenitore diretto e mai rinnegato, nacque il 26 dicembre 1946 a Roma nello studio dell’avvocato Arturo Michelini, figura marginale negli anni di Salò. Doveva chiamarsi Mosit, poi saggiamente contratto in Msi, Movimento Sociale Italiano. Il riferimento alla Repubblica Sociale Italiana non era casuale. Sulla paternità del simbolo, la Fiamma tricolore, circolano una miriade di versioni. La più probabile è che se lo fosse inventato Giorgio Almirante, già cronista della summa dell’antisemitismo fascista, il periodico La Difesa della Razza, ex capo di gabinetto del Minculpop.

TRA LE FIGURE più eminenti presenti quel giorno c’erano lo stesso Almirante e soprattutto Pino Romualdi, ultimo vicesegretario del Pfr, ufficialmente latitante: un filo diretto con Salò. La nascita del partito dei «fascisti in democrazia» era merito suo. Con l’odiata democrazia i reduci neri non volevano avere niente a che fare. Preferivano dar vita a formazioni clandestine armate, prima fra tutte i Far, Fasci di azione rivoluzionaria, guidati proprio da Romualdi. Nel corso del ’46 però il numero uno del reducismo fascista aveva cambiato idea e si era speso moltissimo per riunire tutte le anime del fascismo sconfitto in un unico partito. Aderirono quasi tutti ma molti con doppia militanza: Msi e scheda elettorale di giorno, Far e bombe di notte. Un’ambiguità che non avrebbe mai abbandonato il Msi.

A sentirsi definire «neofascisti» quei fondatori avrebbero risposto a mazzate. Erano fascisti e ci tenevano a che fosse ben chiaro. Di «neofascismo» o «postfascismo» si può parlare a partire dalle elezioni del 1953 quando, nonostante un risultato non disastroso come quello delle prime elezioni, cinque anni prima, fu a tutti chiaro che per la stragrande maggioranza degli italiani il fascismo era storia di ieri. Nacque allora lo slogan che accompagnerà il partito della destra italiana per decenni: «Non rinnegare né restaurare».

IL MSI, CON ALMIRANTE primo segretario, si organizzò in pochi anni come un vero partito di massa. Aveva una lussuosa sede centrale in Corso Vittorio a Roma. Disponeva di un giornale, Il Secolo, e contava su diverse testate fiancheggiatrici. Si dotò di un’organizzazione per gli universitari, il Fuan, e di una per gli studenti medi, la Giovane Italia. Aveva il suo sindacato, la Cisnal, e un gruppo sportivo, la Fiamma, utile anche per irrobustire i militanti di strada.

AL PRIMO POSTO nel programma figuravano la Repubblica presidenziale con elezione diretta del capo dello Stato e la fine del bicameralismo perfetto. Il presente, tante volte, ha radici antiche. Il Msi era europeista ma nell’accezione di un terzaforzismo continentale: «Né con gli Usa né con l’Urss». Il no alla Nato durò poco. Nel 1950 la segreteria passò al moderato Augusto de Marsanich e la Fiamma diventò atlantista, con la benedizione di una leggenda del reducismo nero come il presidente del partito Junio Valerio Borghese che del resto lavorava anche per i servizi inglesi.

Con de Marsanich e a maggior ragione con il successore Arturo Michelini, che nel 1956 sconfisse Almirante per 7 voti, il Msi imboccò senza riserve la via dell’«Inserimento»: alleanza con i monarchici, che fruttò nei ’50 la conquista di piazze importanti come Napoli e Latina, dialogo corrisposto, anche se non sempre apertamente, con la Dc. Fino al 1960 andò a gonfie vele, poi l’azzardo del sostegno solitario al governo Tambroni e il luglio ’60 fecero crollare la strategia del mite Arturo. Sull’onda di quelle giornate sanguinose nacque l’«arco costituzionale», dal quale il Msi era escluso per definizione. Il partito di Michelini restò per tutti i ’60 un asfittico e patetico ghetto di nostalgici che la Dc adoperava alla bisogna.

CAMBIÒ TUTTO quando, dopo la morte di Michelini, Almirante ne prese il posto, nel 1969. Il suo Msi fu aggressivo e agguerrito ma non nostalgico: un partito d’ordine che impugnava l’anticomunismo per dar vita a una Destra nazionale, unificandosi con una parte del partito monarchico. La nuova organizzazione giovanile, il Fronte della Gioventù, menava le mani e anche di brutta. Allo stesso tempo il leader si proponeva come il rappresentante della richiesta d’ordine e repressione che animava la parte più reazionaria d’Italia negli anni della grande rivolta. Ma quando si trattò di scegliere Amirante non esitò mai a sacrificare i suoi giovani militanti pur di conservare il consenso dei benpensanti.

ALLA FINE FU PROPRIO quell’eterna e irrisolta ambiguità a tradirlo. Nelle amministrative del 1971 e nelle politiche dell’anno seguente toccò il picco storico dei consensi con il 13,9% e l’8,7%, un’enormità per l’epoca. Poi il coinvolgimento dei militanti negli scontri sempre più violenti, le aggressioni, il terrorismo nero che nacque proprio per reazione al «tradimento» del Msi ne smantellarono l’immagine rassicurante. Eppure, negli ’80, Almirante non tornò nel ghetto. Al contrario, proprio nell’ultimo scorcio della sua vita il leader storico del neofascismo arrivò molto vicino a una «normalizzazione» del suo partito. Bettino Craxi, da presidente del consiglio incaricato, lo convocò per la prima volta alle consultazioni. Quando si mise in fila con Romualdi per rendere omaggio alla salma di Enrico Berlinguer si trattò di un piccolo ma significativo strappo storico.

ALMIRANTE RESTÒ sempre fedele alla scelta di non rinnegare il fascismo. Quel passo lo mosse Gianfranco Fini, dopo la tempesta dei primi anni ’90, e lo zoccolo duro della sua base non glielo perdonò. Giorgia Meloni, fondatrice di un partito che si sarebbe potuto chiamare invece che FdI «Rifondazione missina», è decisa a non commettere lo stesso errore. Parlare di radici fasciste, a un secolo dalla marcia, è una forzatura. Parlare di radici affondate nella storia di quello che fu anche ma non solo il partito neofascista non lo è. Il partito che ha vinto le elezioni non è quello di Mussolini e neppure gli somiglia. È il partito di Giorgio Amirante.