La fusione tra FCA e Renault potrebbe essere paragonata all’amputazione di un arto. Necessaria, visto l’avanzamento dell’infezione, ma gravida di conseguenze e di rammarico per non aver affrontato il problema con anticipo. La proposta presenta un accordo paritetico (dovuto ai simili numeri di vendite, capitalizzazione di mercato e occupati) tra la casa francese e quella italo-americana.

La fusione porterebbe alla creazione del terzo produttore mondiale (con 8,3 milioni di veicoli) dopo Volkswagen e Toyota. Si tratterebbe però di un gigante dai piedi di argilla, specialmente per la parte italiana.

FCA È UN GROSSO gruppo commerciale con molti marchi, ma che in Europa detiene una misera quota di mercato del 4,6% e nutre i suoi profitti negli USA. Quei pochi significativi investimenti nell’elettrico o in gamme ad alta crescita di domanda sono stati compiuti negli stabilimenti americani, sotto esplicita coercizione da parte dell’amministrazione Obama e del fondo del sindacato United Automobile Workers, nel momento di cedere a Fiat le quote di maggioranza di Chrysler, dopo il salvataggio del 2009. Nel frattempo, in Italia i vari governi succedutisi hanno ossequiosamente accolto o addirittura favorito ogni decisione dell’azienda sempre meno torinese.

OGGIGIORNO, rispetto agli oltre 2 milioni della Francia e i quasi 3 milioni della Spagna, in Italia si producono solo 1 milione di autovetture e veicoli commerciali, in impianti spesso costruiti con fondi statali (vedasi Melfi, un gioiellino di modernità), sotto peggiorate condizioni lavorative. Inoltre, FCA non ha in produzione nemmeno un modello di veicolo elettrico o a guida autonoma. Per sopravvivere alle normative sulle emissioni Ue è costretta ad acquistare i permessi di Tesla.

A un anno di distanza dalla scomparsa di Marchionne, si dovrebbe seriamente discutere su quanto fosse visionario sbeffeggiare le auto elettriche in favore delle produzioni diesel. Il regno di Marchionne si presenta come un tipico caso di dissociazione tra interessi di un’azienda e dell’industria nazionale. Adattando il famoso detto dello storico presidente di General Motors, Charles Wilson: quello che è buono per Fiat non è buono per l’Italia.

L’AMMINISTRATORE delegato di Fiat-FCA è infatti riuscito nell’impresa di narcotizzare l’industria automobilistica italiana, tutelando gli interessi degli azionisti di riferimento. Investimenti quasi nulli (zero aumenti di capitale per anni), chiusura di linee produttive, guerra al sindacato, una generale mancanza di una visione industriale nazionale. Questo non gli ha impedito di tutelare gli interessi della proprietà Agnelli-Elkann, riuscendo a garantirle una lenta e onerosa uscita dal rischioso settore auto (“Un mestiere da giganti” lo definiva Gianni Agnelli), ricevendo lauti utili da capitale e dividendi tramite acquisizioni (Chrysler) e cessioni (Magneti Marelli).

DAL LATO OPPOSTO, a Renault interesserebbe il mercato Usa di FCA. I francesi hanno migliori prodotti e sono meglio specializzati sull’elettrico: evidentemente sarebbero loro ad assumere il controllo del nuovo complesso. Renault è controllata dallo Stato francese (15%), dai suoi stessi lavoratori (2,5%) e da Nissan (15%), a sua volta posseduta per il 43% da Renault. Si tratta di un’azienda apparentemente privata, ma in cui lo Stato francese interviene apertamente nelle decisioni strategiche. FCA è invece controllata al 29% da Exor, la finanziaria degli Agnelli.

La nuova società vedrebbe le quote di tutti dimezzate, ma anche, per la prima volta, la perdita del dominio assoluto da parte della Famiglia Agnelli del settore automobilistico italiano. Lo Stato italiano dovrebbe approfittarne per entrare nel capitale della nuova società, ai fini di controbilanciare quello francese, evitando però di regalare altri soldi agli eredi degli Agnelli.

L’INGRESSO dello Stato in FCA potrebbe aprire importanti possibilità industriali. In primo luogo, se FCA si liberasse di Comau, un’azienda gioiello che produce i robot per l’automazione industriale, Leonardo (partecipata dal Mef al 30%) ne potrebbe rilevare una quota di controllo, per rilanciare il filone meccatronico smantellato con le privatizzazioni della fine degli anni ’90.

IN SECONDO luogo, Francia e Italia hanno già un campione industriale “europeo”, controllato dai rispettivi governi, nel settore dei semiconduttori: STMicroelectronics, nato nel 1986 per iniziativa dell’Iri. Oggi ST si sta specializzando in componentistica per auto elettriche e senza guidatore.
Se i due paesi coordinassero la politica industriale si potrebbero realizzare importanti sinergie, trattandosi degli stessi paesi, di settori utilizzatore-produttore e, auspicabilmente, degli stessi azionisti di riferimento.

Ora che gli Agnelli-Elkann lasciano la barca mentre sta affondando, lo Stato Italiano dovrebbe assumere un maggiore controllo su quello che rimane il più importante settore manifatturiero del capitalismo moderno.

* University College of London (Ucl) Institute for Innovation and Public Purpose