Giornate africane al festival Filmmaker di Milano con le proiezioni di Zinder di Aicha Macky (questa sera) e Faya Dayi di Jessica Beshir (domani). Due incursioni, agli opposti, nel fare cinema «documentario» oggi nell’Africa sub-sahariana e, nello specifico, in due paesi raramente presenti sulla mappa contemporanea del cinema africano, il Niger e l’Etiopia. Due sguardi, entrambi di cineaste, necessari e urgenti per portare in primo piano storie di quotidianità poco note con opere rese possibili dalla stretta vicinanza delle autrici con i luoghi filmati, la cultura e il vivere di comunità che Macky e Beshir, per esperienze personali, conoscono bene. Da una parte, un quartiere ghetto della città di Zinder, in cui Macky è nata e cresciuta; dall’altra, la comunità contadina di Harar ritrovata da Beshir (di padre etiope e madre messicana) perché lì aveva trascorso parte della sua vita. Da una parte, in Zinder, uno sguardo orizzontale con approccio «classico» al materiale umano e urbano incontrato; dall’altra, in Faya Dayi, un’ambiziosa elaborazione di un contesto e di chi lo abita perseguendo la strada di una narrazione e di una visione che fa riemergere la base del reale da una struttura lucidamente inscritta nella contaminazione. Da una parte, i colori esplosivi di un tessuto urbano in riferimento a tanta memoria di cinema africano; dall’altra, il bianconero pulsante scelto per rimarcare le distorsioni psico-fisiche nelle quali sono immersi gli abitanti di Harar.

AICHA Macky si definisce, nella didascalia posta in apertura, «una figlia di Zinder». Zinder è situata nel cuore del Sahel nigerino, una panoramica dal basso in alto e scene di strada di gente la introducono. O, meglio, introducono Kara-Kara, quartiere di Zinder dove storicamente venivano, e vengono, confinate categorie di persone marginalizzate: lebbrosi, paria, spacciatori, contrabbandieri, prostitute adolescenti costrette dalla necessità a fare quel mestiere, gang che imperversano. Conoscendo bene la realtà, Macky si è fatta accettare e ha così potuto seguire da vicino sia alcune persone che le hanno confidato le loro storie sia un’intera e variegata comunità. Sorprende anche l’ingenuità dei membri di una gang che si richiama a Hitler, che ha il suo nome sulle bandiere che sventola dalle auto. Ma per il capo di quella banda, addestrata al culturismo e a regole militari, Hitler «è il nome di un tipo in America, abbiamo sentito che è un guerriero invincibile e noi siamo come lui, senza paura, per questo motivo ci siamo soprannominati Hitler» (e scrivono pure in modo sbagliato il suo nome).

Una scena di «Zinder» di Aicha Macky

IN TALE quadro, la regista nata nel 1982 si muove, osserva, ascolta, filma la realtà che circonda quegli uomini, entra nelle loro case o quartier generali, talvolta è in campo, la si intravede e la si sente porre domande. Sono uomini, soprattutto: qualcuno ha cicatrici profonde accumulate negli anni dovute a scontri violenti, c’è chi si spinge al confine con la Nigeria per contrabbandare benzina, rischiando la prigione, e finendovi, chi aspira a emanciparsi, mentre una coppia è in attesa di un bambino. Tante storie, tanti scorci di esistenze che Macky espone senza prevaricare con lo stile, essere «una di loro» significa non cercare immagini ad effetto, avere un approccio (neo)realista diffuso al fine di condividere «pianamente» ma non superficialmente modi di vita da cui pare arduo staccarsi, che, nonostante tutto, si ri-propongono nel tempo in quel quartiere-città ruvido, difficile, che si autoregolamenta.

NON È INVECE un set cittadino quello che Jessica Beshir esplora con puntuale originalità nel suo primo lungometraggio Faya Dayi. Che non è solo un film alla ricerca e alla rappresentazione di uno stato d’alterazione dovuto al massiccio consumo di una pianta locale, il khat, che fu sacra per i Sufi e che, masticata senza sosta, provoca allucinazioni e una totale dipendenza, ma anche il disegno di un’Etiopia divisa dalle etnie (questione riesplosa da oltre un anno a questa parte con le tensioni di guerra tra governo centrale e regioni separatiste). Gli etiopi di Faya Dayi sono Oromo, «esiliati nel loro stesso paese», della loro condizione se ne parla sottovoce in questo film densissimo di stratificazioni che, fin dalla prima immagine, rimanda a una relazione stretta tra essere umano e natura, alta montagna, che la regista non scioglie ma sovrappone e espande in una costante invocazione dell’altrove, luoghi immaginati, verso i quali tendere o dai quali fare ritorno. Beshir crea, grazie anche al bianconero (tranne un’inattesa inquadratura a colori di un braciere acceso, che abbaglia come una ferita, una bruciatura che colpisce gli occhi – anch’essi, come i protagonisti, «assuefatti» dal consumo del khat che si è impregnato nelle immagini), un’atmosfera ipnotica popolata di visioni (il volto di una donna «ritagliato» nel corpo di un fotogramma), di sogni a occhi aperti (il ragazzo che vuole andare in Egitto, i tentativi di migrare finendo nelle mani di trafficanti), di un anziano che si è del tutto perso drogandosi di khat e non si muove più dal letto.

CENNI DI STORIE, perché la regista preferisce suggerire gli argomenti sociali e politici, pur mostrando chiaramente che tutto ruota attorno alla coltura di quella pianta divenuta unica fonte di guadagno a Harar, e inserirli, di tanto in tanto, nel suo poema per immagini che è Faya Dayi e che chiede la complicità di uno spettatore disponibile a farsi trascinare, e a scivolare, in un mondo reale la cui percezione di esso si dilata (ancor più ricorrendo, Beshir, al rallentamento di numerose immagini e gesti).

NULLA ESPLODE, nulla si placa. Si vaga in una sorta di limbo, dove cielo e terra si toccano nelle sfumature e nella densità del bianconero, in una sorta di circolarità, di attraversamento ebbro dei posti, di falsi movimenti, di seduzioni per altrove sconosciuti, di memorie drammatiche di viaggi già compiuti. Comunque e sempre di una incomprimibile spinta dell’essere umano verso la conoscenza, pensata/praticata.