Una bella e generosa prova di «coraggio» quella di Pierfrancesco Favino, a pochi giorni dal suo debutto come presentatore al festival di Sanremo. Notissimo, e amato dal pubblico, per le sue apparizioni cinematografiche (e anche per i suoi spot simpatia), l’attore azzarda invece di spiazzare i propri fan con un testo duro e importante, che rivendica nello stesso tempo le sue radici profonde nel teatro (giovanissimo fu in molti spettacoli di Ronconi all’Argentina). Favino si misura infatti (regia di Lorenzo Gioielli) con Notte poco prima delle foreste (all’Ambra Jovinelli fino al 28 gennaio) testo magnetico e complesso di Bernard Marie Koltès. È un lungo e denso monologo, di una creatura di cui non conosciamo identità e riferimenti, che nello scorrere di una notte guarda e racconta il mondo, il suo, e il nostro attorno a lui.

È una serrata sequenza di gesti e particolari, scritti da Koltès sulla pagina senza punteggiatura, quasi un unico enorme respiro, frutto dialettico di sentimento e ragione, mentre il vuoto attorno al personaggio si ispessisce di continue, ricche presenze. Sue come di noi spettatori, che potremmo condividere regole e necessità fisiologiche, seduttive, mercantili, di relazione, di gusto, di seduzione, di rifiuto. È un teatro assoluto, vibrante e commovente, che a momenti lambisce il delirio e in altri incide con il rigore di un bisturi nell’analisi delle ombre, orribili o sublimi, che ci circondano.

Un testo bello e inquietante, quasi una poesia senza l’obbligo del verso, più interiore e incontrollato di altri titoli di Koltès. Che lo vide portato in scena al debutto parigino nei primi anni 80 da due star della Comédie française (Boutté e Fontana), all’inizio di quel decennio di larga affermazione in cui l’aids l’avrebbe poi ucciso, mentre Chéreau rendeva famosi i suoi titoli fino al debutto postumo e testamentario di Roberto Zucco affidato a Peter Stein. In questa Notte poco prima della foresta tornano quindi molti elementi dei personaggi che sono protagonisti nelle sue commedie, pied noir in crisi come l’autore stesso, oppure sostenitori di opposte ideologie reazionarie, ma soprattutto creature lanciate in eversioni impossibili di un mondo sbagliato.

Nella Notte quegli elementi si assommano e si scontrano, pronti a essere colti o privilegiati dai molti interpreti che vi si sono calati (anche da noi, da Venturiello a Santamaria a Pippo Delbono). Pierfrancesco Favino li raccoglie tutti in un’unica identità, attorno al quale però resta l’indeterminatezza fascinosa e inquietante del testo forse più famoso di Koltès, La solitudine nei campi di cotone, scontro senza sconti in un angiporto, tra un venditore e un compratore di una merce misteriosa, di cui lentamente si accerta l’immaterialità. Qui Favino unifica nella lingua quel vagare eroico e visionario tra cessi pubblici e alberghi loschi: il suo protagonista è sicuramente un immigrato, dall’est o dal sud, come chiarisce subito la sua parlata dal forte accento straniero. E su quella pronuncia, tanto evocatrice quanto lontana da un piatto naturalismo, costruisce una forte e tesa immedesimazione, che il pubblico sfoga alla fine in un grande applauso liberatorio.