All’Opéra Bastille il Faust del XXI secolo riesce a salvarsi in extremis dalla dannazione eterna sulla scena ma non evita le contestazioni del pubblico, diretta alla regia di Alvis Hermanis della Damnation de Faust di Berlioz. Un fiasco in parte annunciato dall’atmosfera surriscaldata nei giorni precedenti alla prima, con le anticipazioni sullo spettacolo, che trasforma Faust nell’astrofisico Stephen Hawking impegnato a perfezionare il viaggio su Marte; sono seguite le dichiarazioni di Hermanis, che ha abbandonato una produzione del Thalia Theater di Amburgo, dopo gli attentati parigini, stigmatizzando un montante antisemitismo e in parte equiparando politica dell’accoglienza dei rifugiati e aiuto ai terroristi.

Da molte stagioni a Parigi non si vedeva un pubblico così inferocito, con urla a scandire più di un cambio scena e una bordata di fischi finale alla prima come nelle repliche. Hermanis, che a febbraio tornerà alla Scala per I due Foscari di Verdi e a luglio a Salisburgo per Die Liebe der Danae di Strauss, ha incentrato la sua lettura sull’identificazione del Faust contemporaneo con Hawking, costretto dalla SLA sulla sedia a rotelle e oggi celebre anche grazie al cinema, interpretato dal fenomenale danzatore Dominique Mercy, costantemente alternato o anche affiancato al Faust di Kaufmann, ridotto così a deuteragonista. La scena è una vasta struttura modulare a celle che si trasforma anche in immenso schermo. I movimenti coreografici si alternano a proiezioni del mondo naturale (di Katrina Neiburga), alcune anche riuscite ma altre distraenti e fastidiose, come le grandi balene durante l’apparizione di Marguerite, o le meduse fluttuanti e i vari passaggi in scena della sonda cingolata Curiosity, che mostra fascinose immagini di Marte.

Nella replica del 15 dicembre sono però inesplicabilmente scomparse le lumache copulanti che hanno scatenato fischi e ilarità alla prima. Un guasto tecnico o un tentativo tardivo di limitare i danni? La regia, pur interessante nell’assunto di partenza, sovrascriveva in modo eccessivo e incongruo il progetto «faustiano» di superamento dei limiti attraverso la pianificazione del viaggio su Marte (i coristi e i danzatori sono in tuta spaziale alla fine e la corsa all’abisso è corredata da immagini di lancio di satelliti e sonde spaziali) incurante degli scollamenti con il passo drammatico-musicale dell’opera. Il carattere frammentario della potente partitura sinfonico-vocale che lo stesso Berlioz faticava a chiamare opera (accolta da un fiasco a Parigi nel 1846) invece di avvantaggiare la lettura registica accentuava l’astrusità di più di una scena, nonostante il suggestivo – ma didascalico – effetto finale con Hawkings sollevato in piedi dal coro e dai danzatori.

Sul piano musicale Philippe Jordan ha sviluppato una narrazione fluida anche se non troppo personale, avvalendosi soprattutto dell’eccellente forma del coro. Jonas Kaufmann ha meritato le ovazioni ricevute, per l’aderenza vocale e umana al personaggio, specie nella sua grande aria, nonostante qualche stanchezza nel duetto d’amore, in cui ha cercato la raffinatezza di pianissimi assai ardui. Composta e dolente la Marguerite di Sophie Koch, che usa a proprio vantaggio le fragilità timbriche, mentre Bryn Terfel ha sbalzato un Méphistophélès guascone al punto giusto. Dizione superlativa per tutti, compreso il bravo Brander di Edwin Crossley Mercer. Per cantanti e masse artistiche solo applausi, timide approvazioni miste a fischi violenti per il resto. Si replica fino al 29 dicembre.