È mai stato un regista interessante Fatih Akin? Retrospettivamente viene da dire di no anche quando venivano celebrati i suoi esordi come Kurz und schmerzlos (1998) sintonizzato sulla nuova onda dei Kanak Sprak (dal titolo del romanzo di Feridun Zaimoglu), i figli degli immigrati turchi, esplosa negli anni Novanta. La «cucina» di comunità turca, Amburgo, rivisitazioni del genere, commedia specialmente, film dopo film però non è bastata più, e in fondo l’elegìa per il giustiziere – in quel caso la giustiziera tedesca e bionda Diane Kruger – del suo ultimo Oltre la notte, era già disseminata nello schema dei precedenti, macchine oliate di condanna e vendetta – pensiamo a La sposa turca. Fino a questo Der Goldene Handschuh che certo il richiamo del nome e la produzione tedesca hanno portato in concorso ma forse nessun direttore di festival dovrebbe mai selezionare fim così compromessi inclusi.

E NON CERTO perché ci sia chissà che scandalo o perché al cinema il sesso deve essere appalto solo dei giovani e belli pure quando si parla di assassini seriali. O perché diano fastidi i corpi sfatti di vecchie prostitute alcolizzate, che l’omicida fa a pezzi dopo avere cercato invano di scoparle, pieno di alcol pure lui, bruttissimo, i denti marci, le unghie da cadavere, il naso storto, sul muro della casa fatiscente ritagli porno, e in testa la ragazza bionda e bella vista per strada che riempie le fantasie nelle sue mattanze. Quello che infastidisce nel grand guignol senza ironia orchestrato da Akin è la meccanicità, la ricerca fine a sé stessa di provocazione che inscena nei dettagli di fluidi organici o soffermandosi su quelle cosce cadenti e piene di bozzi. E se il tentativo è di mettersi nella testa del serial killer, di far coincidere i propri occhi con i suoi nel restituire il mondo, l’eccesso di sottolineatura lo rende insopportabile.

SIAMO un po’ dalle parti del Lars Von Trier di The House That Jack Built, e non solo per il tema, il serial killer, Jack lo Squartatore, ma soprattutto per quell’atteggiamento del regista che si compiace deliziato del proprio fare senza però la leggerezza dei bimbi quando dicono la «parolaccia» proibita dalla mamma..
Akin è più «viscerale», più fracassone, il suo Fritz Honka, che mescola il fatto di cronaca e il romanzo di Heinz Strunk, è un uomo invisibile, un rappresentante della marginalità nella Germania nel dopoguerra, frequentatore assiduo di St.Pauli, il quartiere a luci rosse di Amburgo, e del «Guanto d’oro» del titolo, un locale aperto tutta la notte dove adesca le sue vittime: donne sole, pronte a tutto per un bicchiere di schnapps. Le uccide e ne nasconde i pezzi nel sottotetto di casa, della puzza incolpa la famiglia di immigrati greci al piano di sotto. Capita anche che una se la tenga a casa, a fargli da schiava, o che qualcuna gli sfugga. Di lui non sappiamo nulla – Mio padre era comunista» grida a un certo punto, e una delle vittime ha sul polso i segni dei campi di concentramento.

NON È difficile vedere nel teatrino alla Grosz del bar le cui tende sono sempre tirate per non fare entrare il sole, e dei suoi frequentatori una danza di vampiri; metafora della Germania da poco sconfitta,compresi ex -Ss, che la ricostruzione ha rimosso nascondendo proprio come il serial killer fa coi corpi delle sue vittime per una società ancora più incarognita in cui Akin si crogiola con volgarissima soddisfazione.