Che il graphic novel sia un linguaggio permeabile e multiforme, capace di prestare le sue forme a storie diverse e molteplici, è ormai indubbio. Ma quando ci si imbatte in un libro come Fatherland, educazione di un terrorista (Rizzoli Lizard) di Nina Bunjevac, la sorpresa e la meraviglia si riaffacciano prepotenti tra le pagine. Il libro, pubblicato da Rizzoli, è la biografia del padre dell’autrice, ex militare serbo, divenuto terrorista in Canada negli anni ’70. La Bunjevac, alla sua prima prova con la narrazione lunga, si misura con una storia intima e dolorosa che si snocciola tra alcuni dei capitoli più drammatici della storia del ‘900 europeo. Abbiamo incontrato l’autrice durante il Lucca Comics and Games.
Fatherland è un lavoro completamente diverso dal tuo primo libro Heartless (ancora non tradotto in Italia). Com’è avvenuto questo salto a una narrazione realistica e autobiografica?
L’ultimo episodio di Heartless, August 1977 (segnalata da Scott McCloud tra i Best American Comics del 2014, ndr) era una storia simbolica e metaforica di 11 pagine sulle ultime 3 ore della vita di mio padre. Usai l’ultima lettera di mia madre a lui indirizzata prima che morisse e anche una lettera fittizia scritta da me, nella quale rifiutavo la sua ideologia. Questa è una prima differenza fondamentale: mentre lavoravo a Fatherlandho perso ogni slancio politico. Inoltre quandoHeartlessuscì in Croazia e in Serbia molte recensioni furono dedicate a quella storia. Era nata una tendenza nei creatori degli stati dell’ex Yugoslavia-filmakers, autori- che si interrogavano sul legato culturale dei propri genitori. Miljenco Jerkovic, famoso scrittore e traduttore bosniaco, per esempio, ha scritto una bella recensione sulla mia storia, ma anche un libro sul proprio padre. Jerkovic è croato, ma la famiglia di suo padre era connessa col regime ustascio. Nel suo libro Father approfondisce quest’eredità e le criticità ad essa legate. Quando ho letto la sua recensione sono rimasta sconvolta da come sembrava che conoscesse bene me e il mio lavoro.
Quindi hai accettato di seguire una tendenza espressiva…su quali elementi hai lavorato per rendere il tuo lavoro unico all’interno di questo filone?
Ho iniziato scrivendo. Dopo circa 120 pagine di sceneggiatura mi sono accorta che la mia era più che altro una ricerca. Appena ho iniziato a lavorare ai disegni ho abbandonato la sceneggiatura. Lavoravo su 3 pagine contemporaneamente, disegnando in modo completamente intuitivo, come avevo fatto in Heartless. All’inizio avresti potuto dire da che parte politica stavo (si capiva che appoggiavo le posizioni di mia nonna, che ero molto dura nei confronti di mio padre etc.) e poi ho capito che non potevo andare avanti così. Non volevo fare propaganda, e nel contesto politico odierno degli stati dell’ex Jugoslavia non sarebbe stato semplice presentare un libro così politico. Ho rimosso le emozioni dalla narrativa e questo ha fatto emergere i personaggi. In questo senso credo di essermi allontanata da un modello o da un trend, perché il mio libro segue un approccio del tutto intuitivo.
Rispetto alla documentazione, nel libro c’è un dialogo tra te e tua madre – una scena intima molto delicata – nella quale lei racconta i suoi ricordi. Ma non credo che quelle di tua madre siano state le uniche testimonianze…
Le storie di mia sorella maggiore e delle zie di mio padre sono state utili. C’erano poi delle lettere, ma l’elemento determinante sono sicuramente state le fotografie. Volevo che il libro avesse un aspetto da vecchio album di famiglia, quindi ho iniziato da lì. Era un lavoro da detective. Per esempio c’era una foto di mio padre ancora bebé in braccio a mia nonna; la luce le batteva in faccia, ma si capiva che l’immagine era stata manipolata. Quando l’ho passata dallo scanner e l’ho ingrandita ho visto che gli occhi della nonna erano cerchiati e neri. Era stata picchiata: avevo lì la prova del fatto che mio nonno fosse un manesco e di come mio padre sin da piccolo avesse assistito a scene di violenza. È incredibile la quantità di informazioni che si possono dedurre da una vecchia foto. Ho combinato elementi storici e politici per riempire i buchi nella storia di mio padre, una ricostruzione storica minimale la storia che non appesantisse troppo la lettura per i lettori occidentali.
Una volta in Canada, tuo padre e tua madre si conoscono per corrispondenza, si sposano e hanno tre figli. Ma quando tua madre intuisce il pericolo delle attività politiche di tuo padre, parte con te e tua sorella per la Yugoslavia. E tuo padre tenta il suicidio. 
Credo che i suoi sentimenti fossero genuini; c’era in lui uno scarto tra quello che sentiva e come riusciva ad esprimerlo. Quando mia madre ci portò via si accorse che aveva perso qualcosa di molto importante. Immagino debba essere stato un grande shock per lui che non riusciva a venir fuori dal suo alcolismo né dalla sua situazione politica. Se fosse tornato in Yugoslavia l’avrebbero catturato e incarcerato di nuovo.
Fatherland è il titolo del libro: «Patria» come la terra dei padri e la terra di tuo padre, ma nel libro esiste quasi una «Motherland» una fortissima presenza femminile, non credi?
Sì, quella della mia famiglia è assolutamente una storia di donne. Fu mia madre a prendere la giusta decisione al momento esatto, anche se sono passati anni prima che lo potesse affermare apertamente: ovviamente per lei lasciare mio fratello con mio padre fu una scelta difficilissima, con pesanti ripercussioni.
Quando è avvenuto e come è stato per te il ritorno in Canada?
Sono tornata nel 1990; avevo 16 anni, certamente un’età delicata. Fu difficile perché non parlavo la lingua, non potevo esprimermi. Tutti erano politicamente corretti e io non sapevo che terminologia utilizzare. Era difficilissimo per me, un gap culturale enorme. Io ero convinta che gli uomini e le donne fossero uguali, non capivo quale fosse il bisogno del femminismo-sapevamo cos’era, ma in Yugoslavia non avevamo bisogno di fare niente in questo senso. Ma in Canada era diverso: c’erano ancora le tipiche famiglie statunitensi perfette degli anni ‘60. Mi sentì inferiore agli uomini per la prima volta. Fu molto duro. Stavo per tornare nei Balcani quando scoppiò la guerra: rimasi in Canada e mia madre ci raggiunse poco dopo.
Il fatto che tuo stile sia caratterizzato da un uso magistrale del tratteggio è legato alla tua esperienza di scultrice?
Assolutamente sì. Nel tratteggio forme e volumi sono fondamentali per la direzione delle linee, per il loro spessore. Ho studiato disegno grafico, belle arti, pittura, scultura, ceramica. Quando ho iniziato a fare istallazioni dalla scultura ho pensato: «Oddio, si può raccontare una storia…è come l’arte sequenziale». E credo di essere arrivata così al fumetto.
Nel fumetto ci sono metafore assegnate agli uccelli. Qual è la loro simbologia?
Mi piacciono molto, il loro simbolismo è transculturale, ma sempre positivo: simbolizzano l’animo umano, sono portatori di messaggi. Alla fine della storia raffigurano il racconto esatto della zia Mara sulla fine di mio padre; la nonna materna si sognò i corvi la notte dell’uccisione di mio padre etc. Ma io per esempio non considero i corvi forieri di cattive notizie, sono semplicemente uccelli neri e molto intelligenti. All’inizio del libro gli uccelli rappresentano la prospettiva biologica della famiglia, il nido, la sopravvivenza, e sono inseriti in una scena in cui mia madre mi porta del cibo (perché io stessa lo cucini). Anche il cibo ha una sua forte simbologia: sono stata anoressica-un effetto del continuo stress, credo- quindi il cibo è un argomento importante per me, direttamente legato alla famiglia.
Credi che al momento ci sia coscienza del fatto che nonostante la costante opposizione, serbi e croati hanno origini comuni?
Oh sì, esisterà sempre, non andrà mai persa. Penso all’800, per esempio: il movimento romantico promosse le origini comune dei popoli che abitano quella zona, un messaggio di unità che veniva ostentato orgogliosamente. La stessa Yugoslavia nacque su quelle idee, che poi vennero politicamente manipolate. Ma è un sentimento che si può ancora trovare, tra gli artisti, i romanzieri, i fumettisti indipendenti. Durante la guerra degli anni ’90 i fumettisti collaboravano: Stripburger per esempio è collettivo sloveno (che pubblica l’omonimo magazine) che raccoglie lavori e contributi di serbi, macedoni, croati, senza fare discriminazioni. Per me fu bellissimo infatti tornare nel 2007 in Europa e trovare questa situazione. Pensai subito: «questa è la mia gente!» vivevano ancora nello stesso modo, come se non ci fosse stata la guerra. Non si può far finta di niente, anche la lingua è la stessa, si parlano solo dialetti diversi. È la destra a volere la separazione e ogni volta che va al governo toglie soldi alla cultura, nel solito goffo tentativo di mantenere la gente all’oscuro della verità.