Dopo l’apice rappresentato dal settimo capitolo della serie, l’ultimo con Paul Walker, il marchio Fast & Furious, doveva per forza di cose tentare qualcosa di inedito per scongiurare il rischio/tentazione della ripetizione. Alimentato da una retorica di strada che affonda le sue radici nella cultura hip hop, F&F che all’epoca del lontano capostipite diretto da Rob Cohen era ancora ancorato nel solco tracciato da Roger Corman, è diventato, a partire dal quarto capitolo (quando Vin Diesel ne ha assunto il controllo creativo), parte integrante del panorama delle mitologie cinematografiche contemporanee. Ogni successivo episodio ha rilanciato e reinventato le possibilità combinatorie di stunt ben oltre i limiti del possibile aggiungendo scaltramente volti nuovi alla galleria dei protagonisti.

In questo modo Dwayne «The Rock» Johnson, Kurt Russell e Jason Statham sono entrati a far parte integrante della famiglia di Dom Toretto. Ed è proprio la famiglia l’elemento intorno al quale ruota l’ottavo episodio della serie firmato dall’ottimo F. Gary Gray, regista di Straight Outta Compton, Be Cool, Set it Off e Il negoziatore. Gray, che aveva già diretto Diesel ne Il risolutore, accoglie sia la mitologia e l’estetica della serie, divertendosi a dirigere una serie di set-piece impressionanti e lavorando ai fianchi una piccola intuizione di sceneggiatura in grado però di reggere emotivamente tutto il film. La famiglia, infatti, nel gergo della strada, non è solo quella mafiosa, ma soprattutto un’identità clanica che la cultura hip-hop ha fatto propria e rilanciato, ricodificandola attraverso segni e simboli. La famiglia, quindi, come insegnano imprenditori del calibro di Puff Daddy e Jay Z, è anche (soprattutto?) un’impresa diretta e mandata avanti da membri fidati i quali conferiscono la loro identità e forza lavoro al progetto d’insieme.

Ovviamente il tradimento è il tabù e il limite. Non si tradisce la famiglia. E se a compiere il tradimento è proprio il capofamiglia, allora è come se il mondo stesso non avesse più valore e valori. A costringere Dom al tradimento è una mefistofelica Charlize Theron e tutto il film si regge su questa dinamica, semplice ma efficace di anticipare come e se Dom e la sua famiglia potranno nuovamente riunirsi. E se l’incipit cubano si presenta come la firma più spudorata dell’apertura dell’isola nei confronti degli Usa, il resto del film è un incessante teoria di inseguimenti e combattimenti realizzati con meticolosità scientifica pur conservando sempre il carattere ruvido.

Eppure niente di quanto precede, neppure la pioggia di automobili dal parcheggio, regge il confronto con l’eisensteiniana (si fa per dire…) battaglia sui ghiacci dove le auto si scontrano con un enorme sottomarino nucleare. Le soggettive attraverso la lastra di ghiaccio, che permettono di osservare come le ombre delle macchine scivolano via in un inseguimento senza fine, sono forse uno dei punti più alti di tutta la saga.