Chi abbia avuto l’infanzia funestata da una guerra, non sogna ad occhi aperti. Pesantemente gravato da quella realtà sarà un adulto sospettoso, e di solito non amante della fantasy che ritiene irresponsabile e in qualche modo provocatoria. Questa è la mia scusa per non aver mai neanche tentato di leggere i molti libri per ragazzi e young adults, mitologie vecchie e nuove elaborate da Philip Pullman, inglese, classe 1946, conosciutissimo e pluripremiato protagonista di numerose polemiche etiche, politiche, religiose, letterarie. Per farla breve è nemico di qualsiasi teocrazia di ogni tipo e colore, della fantasy stessa che non ama ma a cui si concede con passione, direi.
Questo suo Daemon Voices On stories and storytelling, curato da Simon Mason (Knopf Doubleday Publishing Group, pp. 480, € 20,90) è un astuto, aggressivo attacco alla cultura alta e a chi ne officia i riti, insegnanti, accademici, critici, editori, a tutti quei mercanti che affollano il tempio della letteratura, e corrompono quello che dovrebbe essere un onesto commercio con il popolo dei fedeli lettori. Pullman è piuttosto un artigiano dello storytelling, e dell’artigiano (un elettricista forse o un falegname quale effettivamente è) ha anche la presenza, secondo Mason che lo incontrò per decidere quanti e quali testi scegliere tra gli scritti per la presentazione dei suoi libri. «Caustico, di formidabile cultura, acuta intelligenza e fermezza d’opinione, non ha garbo mondano ma istintivamente mette le persone a proprio agio». Mason sceglie trentadue pezzi che in forma di conversazioni con il pubblico trattano inevitabilmente del libro di volta in volta presentato, sempre temi essenziali alla comunicazione letteraria e artistica. Questioni che spesso il linguaggio raffinato della critica più esclusiva preclude al lettore comune, e invece Pullman mette in luce, discute e rilancia in più occasioni, arricchendo e affinando la coscienza dei suoi lettori. «C’è il linguaggio fast food e il linguaggio caviar», è la sua premessa. Insegna i trucchi più evidenti: dove lo scrittore posiziona la sua macchina da presa (ossia il punto di vista), quali siano le tre inevitabili direzioni della storia: cosa accade, chi lo fa, cos’altro accadrà.

La forma è il racconto
«Secondo me – a scrivere è Flannery O’Connor in data imprecisata – il giusto modo di leggere un libro è sempre vedere cosa accade, ma in un buon romanzo accade sempre di più di quanto riusciamo a cogliere sul momento, accade di più di quanto salta all’occhio». Nei pochi ma straordinari discorsi sulla scrittura di questa autentica naïf di genio che fu O’Connor (Un ragionevole uso dell’irragionevole. Saggi sulla scrittura e lettere sulla creatività, a cura di Ottavio Fatica, minimum fax, pp. 375, € 16,00) si trovano considerazioni vicine a quelle di Pullman: lo scrittore moderno, ormai invisibile all’interno del suo romanzo, sia consapevole della propria responsabilità: suo dovere è prestare un servizio alla comunità; l’insegnante di letteratura è il miglior mediatore tra il romanziere e il pubblico; la forma è la somma delle conseguenze che scaturiscono dalla sua origine (Pullman), la forma è tutto il racconto, e dà al racconto un significato che qualsiasi altra forma cambierebbe (O’Connor).
La sua iniziazione alla poesia Pullman l’ebbe in classe leggendo ad alta voce i versi sublimi di Milton: «L’esperienza di leggere poesia ad alta voce quando ancora non l’hai capita bene è curiosa, complessa. È come scoprire all’improvviso che sai suonare l’organo. Grandi ondate e turbini sonori, ritmi potenti e ricche armonie sono ai tuoi ordini; e mentre parli cominci a capire parte della ragione per cui sono lì. Il suono fa parte del significato. E questa parte vive solo mentre tu parli». (Una mia indimenticabile professoressa leggeva Petrarca quasi cantando, senza spiegare nulla).

L’intenzione dell’autore
Di contro a questo incantamento, fortemente emotivo e personale, sta la sua bestia nera: il close reading del testo poetico, frequente nell’accademia di lingua inglese. L’insegnante che impone ai suoi studenti questa pratica di lettura trasforma la classe nella stanza della tortura. «In una atmosfera di sospetto, risentimento e ostilità, molte poesie sono interrogate fino a che confessano, e quello che confessano di solito è inutile, come lo sono sempre i risultati delle torture: stracci di informazioni, ovvietà, banalità». Un altro suo bersaglio è la ricerca inutile e disperante dell’intenzione dell’autore, codificata da Wimsatt e Bearsdley nel famoso saggio The Intentional Fallacy («Sewanee Review», 1946). Alla presentazione di un romanzo c’è sempre qualcuno tra gli ascoltatori che chiede all’autore: «Ma qual è la sia intenzione / il suo messaggio / il suo scopo?». E se ottiene una risposta se ne va soddisfatto, non deve più leggere quel romanzo, ormai sa cosa l’autore volesse dire. «Dunno» risponde di solito bruscamente Pullman, qualcosa come «Boh … non lo so». Non ha un’intenzione quando si mette a scrivere, ma una speranza. O’Connor, più generosa, spiega che l’intenzione è il romanzo stesso, il suo «inscape come direbbe Hopkins, e invece vanno in cerca di un’intenzione ideale e ti criticano perché non ce l’hai».
Pullman è un battitore libero della critica che colpisce i luoghi comuni, i residui di teorie invecchiate, sfonda il confine tra i classici studiati a scuola (Milton, Burton, Blake, Dickens) e le nuove storie in linguaggi diversi (il cinema, i cartoon, le fiabe, la musica, la pittura, la danza…). «Come il jazz, storytelling è un’arte della perfomance, la scrittura stessa è performance» scrive nell’interessante «A Bar at the Folies-Bergère Modernism and storytelling», un’analisi del confronto tra il quadro di W. F. Yames che mette in scena un fatto come l’interrogatorio di un bambino, e la pittura modernista che fa di se stessa il proprio soggetto, vedi Manet e la sua enigmatica barista. Ateo convinto com’è, Pullman non esita ad arruolare Cristo tra i più grandi affabulatori, anche se i suoi ammonimenti non accendono la felicità di quell’attacco unico, «C’era una volta…».