L’appuntamento è un po’ defilato, per cultori della materia. A Roma, dietro il senato, nella sede della Fondazione Basso, incorniciato dai manifesti austeri e ormai ingialliti della «Settimana di studi marxisti» che Lelio Basso lanciò nel ’73 come occasioni di ponderoso approfondimento teorico, ieri si è dato appuntamento un terzetto di antirenziani di pregio ormai diversamente collocati in parlamento. L’occasione è la presentazione del libro di Corradino Mineo «Lezioni di greco» (Imprimatur) in cui il senatore – qui tornato nella sua veste di giornalista e anche moderatore – intervista Sergio Cofferati, Gianni Cuperlo, Stefano Fassina e Walter Tocci sugli amari casi del governo Tsipras. I quattro hanno idee diverse: da Fassina che ricapitola la sua tesi sull’insostenibilità dell’euro a Cuperlo che non va oltre l’ammissione che «c’erano limiti nel modo in cui è stata impostata l’unità monetaria»; idee che però fino a ieri convivevano nello stesso partito.

Ma la cronaca ha i suoi obblighi e gli intervistati presenti parlano di Grecia per parlare dell’Italia. Del resto il sottotitolo del libro non lascia dubbi: «Alla ricerca di una rotta per la politica italiana». E infatti la saletta trabocca di visi interrogativi, alla ricerca dell’introvabile rotta.

La scena si trasforma in un castello di destini incrociati. La coppia degli ex Pd ha ormai archiviato il suo vecchio partito alla voce cause perse e così il paradosso è che è la coppia degli ancora iscritti e al Pd a menare sul proprio partito. Cuperlo, che è ancora nel Pd, rimpiange i tempi in cui con Fassina, che invece se n’è andato, stavano nelle stesse organizzazioni, «da trent’anni sempre insieme, sin dai tempi della Fgci e per quanti sforzi io faccia la novità di oggi non riesco proprio a considerarla positiva»; per concludere che «oggi bisogna ritrovare le ragioni di un campo largo, serve un soggetto in grado di trasformare l’Italia», sottintendendo che il Pd non lo è e che ormai non è neppure più così convinto «che il Pd sia riformabile». Tocci, anche lui è ancora nel Pd, vola alto sul cielo sopra il Partenone ma da lassù spiega che il fiscal compact «è stato un colpo di stato», che il liberismo «partito trent’anni fa come una rivoluzione oggi è arrivato al termidoro capitalistico», che oggi in tutta Europa la crisi di democrazia è crisi costituzionale, «ma in Italia abbiamo esagerato rispondendo con il premierato assoluto». Si riferisce alla riforma elettorale in combinato con quella costituzionale voluta da Renzi. E dunque «sarebbe il tempo di un grande partito democratico», con il che rivelando il pensiero che quello in cui milita non è grande o forse non democratico.

I due all’unisono sostengono la riapertura del dialogo fra sinistra riformista e sinistra radicale» ma restano colonne di un partito che butta fuori dalle alleanze la sinistra un po’ in tutta Italia, o con le vie spicce com’è successo a Roma quando Marino ha cacciato Sel dalla giunta, o come sta succedendo a Milano, scegliendo un candidato impotabile a sinistra.

E così Fassina, quello che il giorno prima aveva detto che ai ballottaggi «potrebbe anche votare un candidato M5S» stasera dice un’altra cosa: a chi gli chiede se a Roma il nome dem fosse proprio quello del senatore Tocci, lui risponde «Walter è una figura straordinaria, correrei subito a fare campagna elettorale per lui». Che è come dire che sè il Pd che si butta a destra, se scegliesse candidati di sinistra il problema della rottura delle alleanze non si porrebbe.
Ma la verità, che Fassina conosce, è che il Pd non candiderà Tocci, il quale del resto non ne ha alcuna intenzione, e dunque alla fine il messaggio è ancora e di nuovo quello del giorno prima: e cioè che nella capitale il Pd può scordarsi l’alleanza. E pure a Milano: «Su questa questione la competenza è del territorio», si schermisce Fassina, «ma la mia opinione è che Sala non consentirebbe di portare avanti la pluralità culturale e di interessi rappresentata da Pisapia».