Stefano Fassina, dopo il voto sul jobs act, ora lei dice: ci faremo sentire sul Quirinale. Siete i nuovi 101 del Pd?

No, assolutamente. Per il Colle cercheremo, come tutti nel Pd, di promuovere una persona che sia autorevole, indipendente e in grado di unire tutto il paese.

Avete un nome?

No. Abbiamo alcuni criteri, appunto.

Romano Prodi risponde a questi criteri?

Certo. A tutti e tre i criteri. Purtroppo credo che per una parte delle forze politiche in parlamento, innanzitutto Berlusconi, la sua capacità di unire il paese non sarebbe riconosciuta. Ma è un requisito che Prodi ha.

A proposito di Prodi, Rosy Bindi vuole che il Pd «torni ad essere il partito dell’Ulivo». Volete tornare a quella coalizione?

Noi siamo impegnati a correggere la rotta del governo. L’Ulivo è stata un’esperienza nata da una straordinaria intuizione, rivitalizzare culture che hanno fatto la storia della repubblica. Dobbiamo far rinascere questo spirito, ovviamente in un quadro molto diverso da quello del decennio scorso. Ma il Pd deve proporsi come soggetto ancorato alle persone che lavorano, ovviamente con apertura culturale, con attenzione a interessi diversi.

Nella realtà succede che in certe regioni bussa alle porte l’Ndc. In Puglia quel che resta dell’Udc. Il Pd reale guarda nella direzione opposta a quella che lei indica?

Sarebbe la direzione sbagliata. L’alleanza con Ndc è emergenziale, dobbiamo unire intorno al Pd forze che con noi in questi anni hanno governato nei territori, che hanno con noi costruito Italia bene comune. Ma più che al ceto politico sopravvissuto dobbiamo aprirci alle energie che ci sono fuori dai partiti.

La trentina di dissidenti del jobs act sono l’ennesima area della sinistra Pd?

Il voto sul jobs act supera definitivamente le aree congressuali, che erano simulacri finiti già da tempo. Ha fatto convergere su un punto decisivo per l’identità e la funzione che deve svolgere il Pd uomini e donne da percorsi diversi, alcuni hanno votato Renzi. Una convergenza non accidentale, che tornerà su altri passaggi importanti di temi che riguardano la democrazia.

C’è chi nota che fra lei e Boccia, avversari dell’era Bersani, non ci dovrebbero essere grandi convergenze.

Chi non ha votato la delega lavoro l’ha fatto sulla base di rilievi di merito. Mi piacerebbe che si discutesse di questo, invece che cercare scappatoie. Mi si smentisca sull’assenza di risorse per allargare gli ammortizzatori sociali ai precari, sull’assenza di interventi significativi sulle decine di contratti precari.

Il presidente Orfini dice: se tutti facessero come voi il partito morirebbe.

Obiezione singolare. Faccio una domanda: quelli che hanno votato il jobs act lo hanno fatto perché lo ritengono un provvedimento giusto o per disciplina di partito? Se quelli della disciplina di partito avessero indicato i punti critici avremmo avuto i numeri per cambiare il testo, e alla fine avremmo tutti votato per convinzione.

Diceva che la vostra nuova area troverà convergenze anche sulle riforme. L’Italicum deve cambiare?

Sì. Sulle liste bloccate l’Italicum è un raggiro degli elettori. Lasciare alle segreterie dei partiti la nomina dei capilista vuol dire avere una camera per oltre la metà di nominati, e finirebbe con un netto peggioramento rispetto al porcellum perché il senato riformato sarà composto da eletti di secondo grado. Agli elettori va data piena sovranità nella scelta di chi li rappresenta. Anche nella riforma del senato ci sono punti decisivi da correggere: come la platea che elegge funzioni fondamentali di democrazia, dal presidente della repubblica ai giudici della Corte costituzionale. E non saremo i soli, nel Pd, a chiedere questi cambiamenti.

Che farete alla direzione di lunedì dove discuterete del «fatto secondario» – parole di Renzi – dell’astensione alle regionali?

Spero che la relazione offra una lettura adeguata delle regionali e anche delle straordinarie mobilitazioni che sono in corso. Sarebbe davvero autolesionistico continuare con spiegazioni consolatorie. Va guardata in faccia la realtà. Va preso atto che una parte del popolo democratico non condivide la linea del governo.

Renzi ha già risposto che il Pd ha vinto, e che chi è contro il suo governo ha preso percentuali da prefisso telefonico.

Io mi preoccuperei invece delle 670mila persone che non hanno rinnovato il voto al Pd dopo le europee. O delle 320mila, se vogliamo fare riferimento alle elezioni del 2010 quando il partito era guidato dai ‘cavernicoli’. E mi preoccuperei dei milioni di uomini e donne che si mobilitano per chiedere al Pd di tornare a considerare gli interessi del lavoratori come fondativi.

Renzi ha liquidato il dissenso interno così: «Se qualcuno non rispetta gli accordi è un problema suo».

Il segretario del partito e presidente del consiglio non ha piena consapevolezza che il problema non è uno che fa capricci o cerca visibilità, ma il crollo dell’affluenza, e le migliaia di persone che nelle piazze dicono che hanno votato Pd e non lo votano più. Farebbe bene a prestare attenzione a una parte del nostro mondo che si allontana da un Pd riposizionato sugli interessi più forti.

Lei però è stato viceministro di Letta, un governo non precisamente antiliberista.

Il governo Letta aveva tutto il Pdl in maggioranza e nonostante questo non ha mai delegittimato i sindacati. E ha resistito alle pressioni fortissime che pure c’erano per deregolarizzare e precarizzare ancora il mercato del lavoro. Quel governo ha avuto limiti, ma ha tenuto presente gli interessi che il Pd deve continuare a rappresentare.

Renzi offre una pizza a Blair e Blair lo riconosce suo erede. Che ne pensa?

Sono passati vent’anni dagli anni di Blair. Quelle ricette, che a me non piacevano, potevano avere un senso all’inizio degli anni 90, nel Regno Unito del dopo Thatcher. Oggi, oltre a essere fuori tempo massimo, sono del tutto inadeguate. Oggi dobbiamo riprendere in mano con coraggio un’idea innovativa di intervento pubblico nell’economia. Rimanere prigionieri del paradigma liberista che ha animato Blair significa condannarsi al fallimento.