È nata ufficialmente ieri nella sala della Protomoteca in Campidoglio, che contiene al massimo un centinaio di persone, l’associazione intitolata «Patria e Costituzione» di Stefano Fassina. La data dell’8 settembre, ha più volte precisato lui, non è stata casuale: si voleva proprio celebrare l’8 settembre di 75 anni fa, con la firma dell’armistizio del disonore e il varo del governo Badoglio che lasciava in piedi la monarchia sabauda complice del fascismo, quella data per Fassina va intesa invece come atto di «rinascita della patria». Del resto in tutta la giornata, negli interventi che si sono succeduti, più volte è stato citato, più o meno fuori contesto, Palmiro Togliatti che con la svolta di Salerno di lì a sei mesi piegando il Cln all’accettazione di Badoglio iniziò la sua real politik tricolore.

A battezzare il nuovo soggetto, esplicitamente «sovranista», i due dioscuri ex pd Stefano Fassina e Alfredo D’Attorre. Le loro due relazioni iniziali non hanno chiarito con quale collocazione intendono porsi in rapporto agli altri soggetti della sinistra di cui pure fanno parte (LeU e Sinistra italiana di cui Fassina è oltre che deputato anche unico rappresentante in Campidoglio) né tanto meno quale sia l’intento finale del nuovo nato, a parte sdoganare alcuni termini e idee abitualmente appannaggio della destra e accentuare la propria connotazione euroscettica come «cesura» con il passato recente, incluso non aver avversato il pareggio di bilancio in Costituzione con l’articolo 81 nel 2012.

«Non intendiamo dare vita all’ennesimo micro partito», ha detto l’ex vice ministro dell’Economia del governo Letta, preoccupato soprattutto del fatto che «solo le destre sovraniste e populiste abbiano colto la rottura del nesso tra nazionale e internazionale» e capito il bisogno di protezione, comunità, identità che secondo lui si genera attraverso l’evocazione di un nuovo «patriottismo costituzionale».

D’Attorre, dei due il più cattivista, ha incentrato la sua relazione attaccando «un’opposizione antitaliana con la quale non vogliamo avere niente a che fare» che «cerca di rifarsi una verginità a piazza San Babila o sul molo di Catania senza fare autocritica», leggi il Pd. Ha poi bollato «i no border» di ingenuità definendoli «una foglia di fico dei liberisti progressisti» e sostenuto che per battere xenofobia e razzismo non si può negare che l’immigrazione, vissuta come problema dai ceti popolari abbandonati dalla sinistra, non sia solo una percezione dovuta a ignoranza. La tesi è che gli immigrati contribuiscano a svalutare i salari italiani.

D’Attorre, da filosofo non si preoccupa di citare studi autorevoli a suffragio e non lo fa neanche il bocconiano Fassina, per il semplice fatto che non ne esistono: gli immigrati, così come altre fasce di popolazione più deboli (le donne, i giovani..), deprimono la contrattazione salariale nella misura in cui sono semplicemente più ricattabili e lo sono attraverso il calvario della legge Bossi-Fini. Per altro, come ha detto anche Massimo D’Antoni e come ha insistito a spiegare Vladimiro Giacché, con i cambi fissi l’unica svalutazione che resta è quella salariale: dunque il problema sono i trattati europei e l’euro, tutte cose che ai badogliani non piacciono affatto anche se confermano che «non sono riformabili».

È toccato all’unico pd salito sul palco, Lionello Cosentino, segnalare come non sia stato il vincolo esterno dell’euro a impedire una politica a maggior tutela del lavoro o diversa dalle privatizzazioni selvagge. E ad Antonio Floridia ricordare come non è evocando il sovranismo, per altro non per forza democratico e popolare, che finiscono interdipendenze economiche e fenomeni migratori o climate change.

La ciliegina sulla torta – il video messaggio di Sarah Wagenknecht della costola rossobruna che si è scissa dalla Linke, Aufstehen – non c’è stata. Da lei solo una letterina di generici auguri «ai compagni italiani».