Stefano Fassina, ci siamo, ha deciso che non c’è più spazio per lei nel Pd?
Se non ci saranno radicali correzioni sulla scuola il mio percorso nel partito si concluderà perché ho già fatto tutte le tappe dell’opposizione interna, e su questioni di massima rilevanza: dalla svolta liberista sul lavoro al populismo delle riforme elettorale e costituzionali. Ora c’è il tentativo di uniformare la scuola a quel modello di democrazia autoritaria.
Il suo percorso è chiaro ed è chiaramente divergente da quello del Pd, perché allora attendere l’ultimo passaggio?
Perché non è un passaggio formale, la mia scelta è seriamente legata a quello che avverrà sul disegno di legge scuola: al senato lo spazio per miglioramenti profondi non è ancora chiuso. Nel giro di poche settimane vedremo.
Sta aspettando l’occasione giusta perché la sua scelta sia il più possibile compresa e condivisa?
Mi pare che non ci possano essere più dubbi sul fatto che il Pd si sia riposizionato in termini di cultura politica, di agenda e di interessi che intende rappresentare. Per un partito di sinistra il lavoro, la costituzione e la scuola sono i pilastri decisivi.
Appunto, il Pd si è già riposizionato, allora perché attendere?
Non c’è solo Renzi, questa è l’occasione per verificare la disponibilità di un pezzo del gruppo dirigente, i parlamentari, a fare le correzioni profonde che sono necessarie. Per il sottoscritto separarsi da una storia che condivide da anni è un fatto traumatico.
La conforta il fatto che sulla scuola la disintermediazione renziana sta incontrando qualche difficoltà in più?
C’è stata una mobilitazione enorme, 618mila tra insegnanti e personale tecnico che scioperano è un fatto di rilevanza storica. Il governo ha sottovalutato la capacità di reazione di un pezzo di società consapevole, che non sta dietro ai messaggi conformistici ma legge i disegni di legge e gli emendamenti e mantiene una capacità di critica.
Eppure Renzi, con o senza lavagna, vende una riforma diversa da quella che effettivamente fa. L’opposizione, oltre che nel merito, non andrebbe giocata anche nella capacità di racconto?
Abbiamo letto tutti Salmon, ma ci vorrebbero anche dei media un po’ meno cassa di risonanza del governo.
Non si intravedono.
In ogni caso abbiamo un problema a monte della capacità comunicativa. E cioè ricostruire il paradigma di una sinistra innovativa. Renzi presenta tratti di discontinuità nella cultura istituzionale, ma infondo è l’interprete estremo della subalternità culturale della sinistra al liberismo. Il cedimento lo precede di un quarto di secolo.
Insomma: è un bravo comunicatore, ha i media con lui, ma il titolo della sua storia è falso, non può essere «cambiamento»?
Soprattutto il cambiamento non è neutro, può essere regressivo o progressivo. Non a caso negli anni 80 si affermò l’ossimoro «rivoluzione conservatrice», e anche quello era cambiamento.
Fassina, quando doveva spiegare la sua permanenza del partito diceva che «c’è tanto Pd fuori dal palazzo». Poi si è accorto che anche quello è renziano?
Mi sto accorgendo che tanto Pd se n’è già andato. Sto girando quasi una scuola al giorno, faccio incontri spontanei con gli insegnanti e mi rendo conto che un pezzo del partito l’abbiamo già perso. Questo pezzo del Pd che sta fuori dai palazzi è ormai fuori anche dal Pd.
Quindi non sono diventati tutti renziani, è che sono rimasti quelli?
Non dico questo, c’è stata sicuramente un’onda di conformismo. Ma anche questa «conquista» si deve leggere nella continuità. Renzi propone un’interpretazione abile di un paradigma che è già stato presente nel partito. Era dominante ai tempi del Lingotto, c’era anche durante la segreteria Bersani. Me le ricordo le battaglie contro Ichino per evitare che si arrivasse a dov’è arrivato Renzi. Aggiungo: la costruzione del mito fondativo delle primarie è cominciata ben prima. Quel mito è adesso nel cuore delle istituzioni, ma c’è arrivato partendo dallo statuto del Pd, e non ce l’aveva messo Renzi. Non è il marziano che conquista un pianeta sano.
E cos’è?
È il leader di un partito dell’establishment, liberista e plebiscitario, subalterno all’agenda tedesca. In Italia svolge il ruolo che altrove compete alla destra merkeliana, da noi assente. È questa la ragione per cui, nonostante la perdita di settori importanti del nostro elettorato, non si è indebolito come le altre forze della sinistra europea.
Verso quei «settori importanti» le prime mosse sono venute dal sindacato: la segretaria della Cgil ha detto che non vota Pd, il segretario della Fiom ha lanciato la coalizione sociale.
La prima mossa l’hanno fatta gli elettori, quei 700mila che il 24 maggio hanno votato Pd in Emilia Romagna e l’autunno successivo non l’hanno più fatto. Il partito ha perso la metà dei consensi e la partecipazione al voto è crollata. La prova che ci sono domande sociali e domande di rappresentanza politica che non trovano risposta nel Pd.
Alle domande è meglio offrire risposte piuttosto che iniziative non coordinate: Civati è uscito, lei no o non ancora.
Con Civati e con altri abbiamo discorsi aperti, siamo in una transizione e la risposte non possono arrivare da dinamiche di palazzo. Bisogna che parta dai territori un percorso condiviso. Noi che svolgiamo una funzione di rappresentanza politica possiamo solo portarlo avanti.
Sta dicendo che non c’è fretta di costituire un nuovo gruppo in parlamento?
Avrebbe senso solo se fosse la proiezione di fatti che devono maturare fuori dai palazzi e che dobbiamo essere in grado di accompagnare.
Cominciando dalla raccolta delle firme per il referendum contro l’Italicum?
Penso la questione della scuola ci consenta di raccontare la svolta che sta avvenendo sul terreno della democrazia in modo molto più efficace della riforma elettorale.