Ne «L’abisso» (Stampa alternativa), Flore Murard-Yovanovitch raccoglie alcuni dei suoi interventi di denuncia, fondata su una documentazione insieme agghiacciante e ineccepibile, contro la politica nei confronti dei migranti adottata, in violazione delle leggi internazionali, dai paesi Europei.

Nei suoi reportage la precisione dei dati diventa passione di opposizione irriducibile a una barbarie razzista, figlia di una visuale delirante in cui l’Europa non smette di precipitare. La scrittrice francese mette in risalto il «Fascismo di frontiera», un controllo militare dei confini (fatto di respingimenti, di omissioni di soccorso, di campi di concentramento) la cui esistenza ci è, nonostante tutto, largamente sconosciuta come determinazione a delinquere e cinismo.

Il libro è centrato sulla «cecità totale» con cui l’Occidente sta affrontando un flusso migratorio che non è possibile fermare, perché prodotto da una crisi globale senza precedenti e a cui si è molto lontani da voler veramente porre rimedio. La cecità crea fantasmi, invasori immaginari da combattere. I migranti non rappresentano di per sé un grande pericolo di destabilizzazione, non sono loro ad aver determinato la precarietà economica, né il degrado della vita sociale. Se il loro arrivo fosse gestito in modo sensato potrebbero rappresentare una forza vitale dal punto di vista economico e culturale, ma ciò è ultima cosa di cui i nostri governanti si preoccupano.

Il Fascismo di frontiera che alimenta, come Murard-Yovanovitch sottolinea, un autoritarismo interno, ha un consenso, di natura psicologica, diffuso.

Il consenso ha due origini distinte, ma collegate. La prima è l’impostazione del sistema economico/produttivo mondiale sulla perversione dei desideri in bisogni artificiali, sull’uso degli oggetti e delle relazioni umane in termini eccitanti e calmanti, profondamente anestetizzanti. Da una parte ciò determina l’espansione senza limiti di un mercato di falsificazione dell’esperienza; dall’altra spinge verso una strumentalizzazione estrema dei legami e favorisce un’ostilità latente pronta a materializzarsi in questa o in quell’altra forma.

La seconda origine del consenso per il razzismo (sempre più ipotecato dal totalitarismo), è lo sradicamento sociale (non solo economico, ma anche politico e culturale) degli indigeni che nei migranti vedono riflessa la propria immagine di diseredati, falliti e la/li odiano. Ciò che respinge negli esuli l’Occidente è l’immagine della propria crisi, della propria decadenza.

Unirsi nell’affermare che dobbiamo «restare umani» ci consola, ma non ci allontana dal precipizio che si avvicina: in modo analogo al nostro corpo che deperisce ne non è nutrito e dissetato, non riusciamo a restare a lungo psichicamente vivi, sani in assenza dello scambio erotico, affettivo e culturale che ci permette di essere tali.

I valori umani sono incarnati in una vita che conosce il coinvolgimento e il godimento profondo dell’esperienza nel mondo, diversamente sono concetti morti.

La difesa dei migranti ristretta nel solo campo dei bisogni primari subisce l’egemonia ideologica di chi li aggredisce e resta lontana dai diritti umani. Non esiste il diritto di non essere stuprati, di non morire di fame, ma il diritto di disporre del proprio corpo erotico, di costruire un degno vivere.

Se aiutare i naufraghi a sopravvivere sul piano materiale diventasse l’unico modo per stabilire un rapporto con loro, se l’emergenza del soccorso diventasse uno stato di cose permanente, il nostro asservimento a un processo di globalizzazione/omologazione selvaggia che trasforma gli esseri umani in macchine biologiche, potrebbe farsi irreversibile, definitivo.