Del Giappone e della sua storia si scrive e si conosce ancora troppo poco, nonostante ne siano disponibili una decina di «storie» (comprese quelle solo sul periodo moderno e contemporaneo), perlopiù sintetici testi generali dai contenuti inevitabilmente simili. Il panorama è dunque piuttosto misero, tanto che continuano a venire riproposte opere, come la Storia del Giappone di E. O. Reischauer, il cui valore oggi sta soprattutto nel documentare un modo antico, quasi coloniale, di scrivere sull’Asia.

Reischauer è stato un esponente di spicco la scuola storiografica statunitense sul Giappone, per ovvie ragioni la più consistente tra quelle in lingue occidentali, le cui posizioni accademiche, dal 1945, si sono per decenni intrecciate con quelle politiche dell’amministrazione statunitense, a partire dall’esclusione dell’imperatore Hirohito (dovremmo, in realtà, usare il nome dinastico, Showa, e non quello personale) da ogni responsabilità relativa alla guerra. La prospettiva americana sul Giappone, anche quando non viziata politicamente, non può dunque venire assunta acriticamente.

Questioni di prospettiva
Troppo spesso, in passato, studi italiani hanno descritto il Giappone postbellico come un paese fortemente centralizzato, con un pesante intervento dello Stato sulla vita economica: vero, se il metro di paragone è con gli Stati Uniti; falso se si guarda all’Italia dove le autonomie locali si sono sviluppate più lentamente che in Giappone e dove lo Stato non si è limitato a esercitare una funzione di «guida amministrativa» dell’economia, ma si è fatto esso stesso imprenditore. Italia e Giappone, i cui stati nazionali sono nati quasi contemporaneamente negli anni Sessanta del XIX secolo, hanno dovuto affrontare sfide analoghe, come quella verso la modernizzazione, producendo risposte altrettanto simili, come la deriva totalitaria tra le due guerre mondiali. Di grande interesse sono quindi gli studi comparati fra Italia e Giappone, in crescita ma non abbastanza per poter parlare di una scuola storiografica.

L’ipotetico lettore italiano, che rischiasse di perdersi d’animo tra saggi troppo generici, eccessivamente datati o culturalmente distanti, ha oggi un nuovo importante strumento a disposizione: Il Giappone moderno dall’Ottocento al 1945 (Einaudi, pp. 567, euro 34,00) di Andrea Revelant, che affronta con sicuro metodo storico il periodo compreso tra il 1868, anno della restaurazione imperiale Meiji, e la fine della Seconda Guerra mondiale. Il titolo non tragga in inganno, non è l’ennesima storia del Giappone in pillole, ma (finalmente) un’opera di ampio respiro, in grado di fornire un quadro, completo e dettagliato, della storia del Giappone nel periodo «moderno», che come lo stesso autore sottolinea, occupa un lasso assai breve – circa ottant’anni – nella storia del paese del Sol levante. Del resto, altrettanto breve è il periodo contemporaneo, che vien fatto convenzionalmente iniziare, in Giappone, nel 1945.

Revelant non cade nella trappola di conformarsi a standard eurocentrici, che farebbero del Giappone, all’apparenza passato dal feudalesimo alla modernità in una manciata di anni, una anomalia. Seguire il percorso storico dell’Asia ci permette di capire come la scansione nelle epoche antica, medioevale, moderna, contemporanea, non sia un dogma storiografico ma una costruzione arbitraria, non esportabile oltre l’esperienza europea. Nel Giappone moderno, anche i momenti di apparente e radicale cesura vanno collocati, senza determinismi, nell’alveo della continuità storica. L’autoritario stato Meiji aveva in sé i germogli di uno sviluppo in senso liberal-borghese, che sembrò potesse realizzarsi tra il settembre del 1918, quando divenne primo ministro Hara Takashi, «uomo comune» e leader politico, al maggio del 1932, quando venne brutalmente assassinato, da un gruppo di «pochi e maldestri» cospiratori, il premier Inukai Tsuyoshi, a capo dell’ultimo gabinetto di partito del Giappone prebellico.

Revelant ci ricorda, tuttavia, come ad affossare le tendenze liberali che si erano faticosamente affermate nella politica giapponese, non fossero stati solo i militari e i gruppi nazionalisti, ma anche elementi interni agli stessi «partiti costituiti». Particolarmente interessante il caso degli esponenti del minuscolo campo socialdemocratico, come Asô, Asanuma e Akamatsu, che videro nella «prolungata mobilitazione nazionale l’occasione per piegare le resistenze borghesi all’economia pianificata». Uno degli aspetti più interessanti del libro è il suo disertare scorciatoie generiche riferendosi, per esempio, a «i giapponesi» come fossero soggetti intercambiabili. La trattazione, fitta di nomi, luoghi e date (inevitabilmente impervia alla memoria ad una prima lettura), mette a fuoco la singolarità degli individui, anziché guardare solo alla massa indistinta, che si muoverebbe compatta nella direzione voluta dalle varie leadership al potere.

Gli archivi in mano
La cautela nell’applicare categorie «eurocentriche» è più che mai necessaria quando si tratta la vexata quaestio del fascismo giapponese: è pertinente questo attributo al regime nipponico degli anni Trenta e Quaranta? O si dovrebbe piuttosto parlare, come ha a lungo sostenuto la storiografia statunitense, di un paese «ultranazionalista» o «ultramilitarista»? Revelant, nell’incipit del paragrafo dedicato alla questione, evita accortamente di prendere una posizione e, solo dopo aver analizzato punti di forza e debolezze delle diverse interpretazioni, conclude di ritenere «nondimemo valido il ricorso alla categoria storiografica del fascismo in relazione al caso del Giappone come strumento di comparazione critica».

Sorprende forse non trovare nel paragrafo, neppure in nota o come riferimento bibliografico, un cenno al lavoro dello scomparso Francesco Gatti, esponente di spicco della precedente generazione di storici del Giappone, il quale aveva dedicato al tema una monografia che, per quanto invecchiata, resta opera di grande rilevanza. Tuttavia, il volume di Revelant è sostenuto da un ricchissimo apparato bibliografico e sitografico, che testimoniano di un paziente lavoro svolto su materiale di archivio, oggi assai più agevole che nel passato poiché, come ricorda l’autore nella prefazione «è stata infatti digitalizzata un’enorme mole di documenti e di pubblicazioni d’epoca».

Di tutto il testo, meno convincente è il primo capitolo, dedicato alla storia precedente il 1868, perché sebbene la sintesi sia ineccepibile, rischia di essere troppo concentrata per il lettore non familiare alla materia e inutilmente prolissa per quello già esperto. Ma è evidentemente il pedaggio da pagare alla necessità di non dare mai nulla per scontato, quando si parla del lontano e misterioso «Sol levante».