Evento drammatico, la sconfitta a Singapore costituì, per l’Impero inglese, il corrispettivo di Pearl Harbour, entrambi essendo la conseguenza dell’ingresso in guerra del Giappone. E se Pearl Harbour fu solo il primo passo di una epopea continuamente celebrata, che avrebbe segnato la crescita decisiva della potenza americana nel Pacifico, è ancora sotto questa prospettiva che si deve vedere la caduta delle Filippine, nel marzo 1942, un mese dopo la presa di Singapore: lasciando l’11 marzo Corregidor per l’Australia, il governatore Douglas McArthur disse «I came through and I shall return», «me ne vado ma tornerò».

E in effetti tornò, al punto che sarebbe stato lui, il 2 settembre 1945, ad accogliere la resa del Giappone sulla corazzata Missouri nella Baia di Tokio. Chi lasciava Singapore il 15 febbraio 1942, proprio come chi era rimasto ad Hanoi dopo la resa della Francia in Europa, sapeva che non ci sarebbe stato ritorno, e che la fine della guerra, sia pure vinta, avrebbe comunque coinciso con la fine del colonialismo. Forse anche per questo, le innumerevoli celebrazioni di Pearl Harbour e di quel che segue (da La battaglia del mar del Coralli, 1959 a Tora! Tora! Tora!, 1970, da Pearl Harbour, 2001, a Marianne, 2019) non hanno un corrispettivo per Singapore.

Esce ora, però, tradotto in italiano quattro decenni dopo la sua comparsa in inglese, La presa di Singapore di James Gordon Farrell (traduzione di Francesca Cosi e Alessandra Repossi, Neri Pozza, pp, 816, € 23,00): di qui una certa impressione, non spiacevole, di trovarsi di fronte a un insetto conservato nell’ambra.

L’autore, del resto, ha qualcosa di stranamente anacronistico: nato nel 1935, è nostro contemporaneo; ma essendo morto giovane, per un incidente, nel 1979, dista ormai da noi un’era geologica, l’era che si identifica con il postmoderno. I modelli sono quelli, con un chiaro riferimento archetipico a Nabokov, in particolare quello di Fuoco Pallido, e molte somiglianze di famiglia con Doctorow, DeLillo, Lodge, Eco, consegnandosi a una stagione il cui ultimo esemplare va probabilmente cercato nelle Benevole di Jonathan Littell (2006).

Postmoderno è il citazionismo, per esempio di Via col vento, non tanto nella conclusione, che è un richiamo davvero troppo esplicito (le ultime parole del libro sono «come si suol dire, domani è un altro giorno»), bensì nel personaggio di Joan, ricca ereditiera inglese, che è una sorta di Scarlett O’Hara (proprio come sua sorella Kate è una specie di Lolita); ma, soprattutto, la maniera citazionista emerge in una scena occupata dai parapiglia per imbarcarsi sulla nave francese che per ultima lascia l’isola prima della caduta: qui, il personaggio di Matthew – tra il Rett Butler di Via col vento e il Pierre Bezuchov di Guerra e pace – prende in braccio l’amata eurasiatica Vera facendosi largo tra la folla, mentre la caduta di Singapore si intreccia con la caduta di Atlanta. Ma c’è anche, tra queste pagine, qualche eco che rimanda all’Azione parallela dell’Uomo senza qualità di Musil, replicata nell’intempestiva organizzazione (tutto sta crollando) delle celebrazioni dei cinquant’anni della Blacked and Webb Limited, l’industria di estrazione della gomma che è la protagonista principale del racconto, come nei Buddenbrook.

Postmoderno è il romanzo di idee che prende il posto dell’epica, come nella Montagna magica, con la pretesa, tuttavia, di mescolare i generi in modo un po’ stridente: Hans Castorp, finito l’agone intellettuale in sanatorio, va incontro all’epica nella Prima Guerra Mondiale, ma siamo già all’ultima pagina. Provate a riportarvi alla mente i dialoghi tra Naphta e Settembrini, poi trasferiteli in una trincea della Somme e vi farete l’idea dell’ambiente in cui si trova il lettore di Singapore.

Il romanzo di idee è dialettico e, almeno dalla Nascita della tragedia in poi, sappiamo che la dialettica nuoce all’epica proprio come il comico nuoce al sesso. Tolstoj fa una chiara scelta di campo, una scelta in prima persona: è per la grande guerra patriottica, e proprio perciò può aderire così naturalmente a una narrazione storica antinapoleonica. Ci sono parti delle lettere di De Maistre al Re di Sardegna da San Pietroburgo sulla campagna e la caduta dell’Orco che sembrano venir fuori da Tolstoj e viceversa. Qui, invece, la voce narrante di Farrell vorrebbe essere equanime, ossia, nella fattispecie, postcoloniale, sebbene l’autore sia indubbiamente riguardato da nostalgie a suo tempo trasferite nella trilogia dell’impero, Troubles (1970, sulla rivolta irlandese) e The Siege of Krishnapur (1973, sulla rivolta indiana del 1857) di cui Singapore costituisce l’ultimo atto. Tanto l’equanimità nuoce all’epos, quanto favorisce il romanzo di idee; ma la pretesa di scrivere al tempo stesso un’epica (sia pure capovolta) e un romanzo di idee è chiedersi troppo, e anche il lettore ne risente.
Postmoderna, infine, è l’ironia.

Lo stesso titolo, Singapore’s Grip, che significa «la presa di Singapore», indica sia l’evento militare a cui si fa riferimento, sia una prestazione sessuale tantrica. Sarebbe come se Tolstoj avesse intitolato l’epopea di Napoleone e di Kutuzov, di Pierre Bezuchov e di Andrej Bolkonskij, poniamo, Roulette Russa, o Thomas Mann avesse trovato divertente chiamare la storia di Adrian Leverkühn Doctor Panzerfaust. Ulteriore considerazione, calzante per quanto riguarda soprattutto i componimenti misti di storia e di invenzione: se trovi tutto ciò così ridicolo, perché lo racconti? Uno dei personaggi del libro, nella fattispecie un cane, è chiamato dall’autore La condizione umana: oltre a essere poco pratico come nome di un animale da richiamare, si dà il caso che sia anche il titolo di un capolavoro, quello di Malraux, che fa i conti più convintamente con colonialismo e postcolonialismo, in una Shanghai molto più viva, espressiva e tragica della Singapore di Farrell.

Ho letto non pochi libri di storia, principalmente tardoantica e sulla Seconda Guerra Mondiale, ma senza economizzare su altre epoche e luoghi geografici, ovviamente nutrendomi di quelle storie a misura d’individuo che sono le biografie. Come tutti, sono stato in grado di riconoscere una differenza tra il genio di Gibbon, l’ironia del Saggio sui costumi e lo spirito delle nazioni di Voltaire, la capacità di analisi e di racconto di Liddell Hart (la cui Storia della Prima Guerra Mondiale rientra dei dieci libri preferiti da Borges), il mestiere alla lunga ripetitivo ma sempre ineccepibile di Anthony Beevor. E, sempre, ho notato che un romanzo storico è raramente eccelso, quando lo è sembra un miracolo.

Ora – mi chiedo a proposito del romanzo di Farrell, benché egli domini perfettamente la materia e disponga di uno stile carico di ironia e di riferimenti culturali – perché impossessarsi delle vite degli altri, altri veramente esistiti, le cui imprese sono state magari studiate e ricostruite con fatica da storici che hanno frugato fra carte e lacune, e trasformare il tutto in un gran fuoco delle vanità? In un gioco in cui un narratore presta a personaggi di finzione misti a persone realmente esistite pensieri, sentimenti e discorsi inventati a tavolino? Di contro, almeno per quanto riguarda la mia esperienza e i miei gusti, non c’è libro su eventi magari minori, scritto anche malamente da un ufficiale in pensione, o addirittura costruito con chiari intenti di falsificazione o autoapologetici – per esempio La Guerra d’Etiopia di Badoglio o Histoire de la Première armée française: Rhin et Danube di De Lattre de Tassigny – che non mi abbia strappato qualche ora di interesse. Di certo, ciò che fa la differenza non è la garanzia che quanto viene raccontato sia più veridico che in un romanzo, tutt’altro. Probabilmente, è una questione di generi letterari.

La storia, anche minima, anche falsa, anche sgrammaticata come può esserlo il diario di una recluta, ha pur sempre una sua ragion d’essere: ci parla di atti, dolori e, ovviamente, glorie (chi non vorrebbe sentirsi almeno una volta come Th. E. Lawrence quando entra vittorioso ad Aqaba?) che, grazie alla legge del genere, si assumono come reali, e del reale possono avere l’inverosimiglianza e la deformità. Mentre il romanzo storico, se non arriva a trasfigurarsi in un capolavoro è sempre, in fondo, uno scrocco, che si risolve in uno scacco.