Dal dossier Mps, sembra scomparsa senza possibilità di appello l’unica opzione sensata: il mantenimento in mano pubblica della Banca, la sua ricapitalizzazione ad opera del Tesoro, la definizione di una mission di supporto all’economia nazionale, allo sviluppo di filiere produttive strategiche, alla realizzazione del Pnrr.

È l’effetto del governo Draghi, che ha assorbito la gran parte dell’arco parlamentare in un’operazione di restaurazione politica, di cui il ritorno all’ortodossia di mercato è il risultato più evidente.

Mercato all’italiana, ben inteso, in cui i profitti devono essere sistematicamente privatizzati e le perdite scaricate per intero su lavoratori e contribuenti, con la politica ridotta a garante di questo ben oliato meccanismo. Si dice che all’origine di tutto stia un obbligo contratto con l’Europa, che imporrebbe di cedere le quote detenute dal Tesoro entro dicembre 2021. Vero, come è vero che proprio quella clausola capestro fu oggetto di non poche critiche quando fu accettata dal ministro Padoan.

Diventa infatti complicata l’operazione di rilancio di un istituto di credito, così come la sua eventuale cessione a condizioni vantaggiose, se esiste la tagliola di una scadenza temporale fissata per legge. È d’altra parte incredibile che nel mezzo di una crisi globale che ha imposto la revisione di molti dei paradigmi del neoliberismo, non si possa ridiscutere un accordo preso con l’Unione europea in una fase storica lontana anni luce.

Vogliamo veramente assumere che si sia potuto sospendere il patto di stabilità, ma non si possa sottoporre a revisione una scadenza miope e sbagliata, nonché il suo fondamento ideologico, ovvero il rifiuto dell’intervento pubblico in economia?

Questo è il primo nodo a cui dovrebbero immediatamente applicarsi parlamento e governo: eliminare il vincolo alla cessione. Se si vuole perseguire l’interesse pubblico, è infatti indispensabile che tutte le opzioni possano rimanere sul tavolo e che, anche qualora politicamente prevalesse l’idea della privatizzazione, questa possa essere negoziata senza essere influenzati dal fattore tempo.

Il secondo è la ristrutturazione strategica del bilancio di Mps. Se lo Stato è disponibile ad investire miliardi per liberare dal peso insostenibile degli Npl un eventuale acquirente, non c’è motivo per cui non debba farlo per consentire alla Banca il proprio rilancio. Gli stress test dimostrano che Mps non è in grado di sostenersi alle attuali condizioni, ma rendono anche evidente che la causa di questa situazione stia nell’eredità della mala gestio passata, nonché nel rifiuto del governo Renzi di assumere per tempo l’iniziativa della nazionalizzazione.

Il terzo nodo è togliere definitivamente dal tavolo tanto l’ipotesi dello spezzatino, quanto della dell’arlecchino. La Banca non può essere fatta a pezzi per soddisfare acquirenti interessati solo ad acquisire gli asset migliori a prezzo di saldo, senza farsi carico del ruolo fondamentale svolto da Mps in Toscana e non solo. Lo spezzatino farà bene al bilancio di UniCredit e ai bonus di Orcel, ma fa male all’Italia.
Altrettanto sbagliata sarebbe tuttavia l’idea salviniana della “banca dei territori”, costruita con l’aggregazione di Mps, Popolare Bari e Carige.
Non si costruisce infatti nulla di solido con la sommatoria di drammatiche fragilità, che hanno in comune soltanto l’attuale stato di difficoltà.

Meglio è che Mps venga ripulita degli asset deteriorati ed eventualmente alleggerita attraverso il fondo esuberi di costi fissi in eccesso, favorendo il ricambio generazionale, per poi valutare l’ipotesi stand alone in mano pubblica o la possibilità di integrazione in un polo bancario di maggiori dimensioni. In questo modo i 10 miliardi di cui si parla sarebbero un investimento sul futuro dell’Italia e non una regalia ad Unicredit o ad un altro soggetto.

 

* Responsabile nazionale economia di Sinistra italiana